La morte del ghiacciaio

Cinque anni fa l’Okjökull è stato declassato, perché non ha più abbastanza ghiaccio. Una cerimonia e una targa ricordano ora l’evento. Per il riscaldamento climatico, però, l’isola si sta rimboschendo…

 

 

In Islanda piangono. Almeno alcuni. Il motivo, la “morte” di un ghiacciaio, jökull in islandese. Non si tratta, certo, di un lutto nazionale, ma di una messa in scena, con data 18 agosto, che avrà come protagonisti i combattenti contro il cambiamento climatico, più esattamente gli antropologi Cymene Howe e Dominic Boyer, professori all’Università di Rice (Usa). In quella data, questi andranno in cima al vulcano Ok, nel centro-occidentale dell’isola, e porranno una targa commemorativa. In due lingue, islandese e inglese, l’iscrizione dice: «Ok è il primo ghiacciaio islandese che ha perso il suo status di ghiacciaio. Nei prossimi 200 anni, tutti i nostri ghiacciai dovrebbero seguire lo stesso percorso. Con questo monumento riconosciamo che sappiamo cosa sta succedendo e cosa si deve fare. Solo in futuro sapremo se lo avremo raggiunto». Poi viene aggiunto un dato scientifico orientativo per chi leggerà la targa in futuro: «415 ppm CO2», cioè la quantità di CO2 nella data indicata.

 

In realtà l’Okjökull è morto, o meglio è stato declassificato da ghiacciaio dall’Ufficio meteorologico islandese, già cinque anni fa. È da tempo che il volume di ghiaccio nel Paese è oggetto di studio constante, e non solo per motivi climatici. Per soddisfare i criteri che fanno di una massa di ghiaccio un ghiacciaio, questa deve essere abbastanza spessa da affondare e muoversi sotto il suo stesso peso, e l’Okjökull aveva perso tale capacità. Il primo dei ghiacciai islandesi a perdere il titolo. In questi giorni, a sostenere l’iniziativa di Howe e Boyer, si sta diffondendo nei media delle foto della Nasa che mostrano l’enorme diminuzione di ghiaccio in cima all’Okjökull. Agli inizi del XX secolo, si stimava una superficie di trentotto chilometri quadrati per l’Ok, con uno spessore di cinquanta metri in alcuni punti; le foto aeree nel 1978 già mostravano un’area di soli tre chilometri quadrati; oggi ne resta meno di un chilometro nel cratere del vulcano, con uno spessore di solo 14 metri.

 

Ma non tutto è “morte” nell’isola dei ghiacciai e dei vulcani, le due grandi attrattive turistiche dell’Islanda, oltre a contemplare le sue belle aurore boreali. Man mano che il ghiaccio diminuisce, avanza la vegetazione. Di solito i turisti, visitando l’isola, si domandano: non ci sono alberi qui? Anzi, gli stessi islandesi hanno popolarizzato questa battuta in una sorta di proverbio: «Se vuoi uscire dal bosco, devi solo alzarti». Una volta, quando arrivarono i vichinghi, la bellezza di mille anni fa, c’erano dei boschi, almeno un terzo della superficie dell’isola, ma il bisogno di coltivare la terra, pascolare e usare tronchi per riscaldare e produrre utensili condannò le foreste. Poi, la stessa attività geologica e vulcanica e l’importanza storica dell’allevamento ovino hanno impedito una rigenerazione naturale dei boschi. «L’Islanda è uno dei peggiori esempi di deforestazione al mondo», dice Throstur Eysteinsson, direttore del servizio forestale islandese, nel video «Riforestare l’Islanda, una causa per l’ottimismo» (https://www.youtube.com/watch?v=-hgAf8awLmQ).

 

L’impegno di riforestazione è iniziato nel 1907 ed è continuato fino ad oggi, con più o meno successo. L’obiettivo è arrivare al 2100 con almeno il 12% della superficie ripopolata di alberi. Ed ecco che il cambiamento climatico in questo caso sembra un perfetto alleato. Storicamente, il freddo ha sempre ostacolato la crescita delle foreste, ma il graduale aumento delle temperature dagli anni ’80 ha fatto aumentare di 100 metri l’altezza alla quale il terreno è considerato ottimale per la silvicoltura, il che favorisce i programmi di riforestazione. Ecco un duplice effetto dei cambiamenti climatici. Magra consolazione!

 

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