La montagna sacra

Alla scoperta di Monte Sant'Angelo, sul Gargano: lungo un sentiero stretto e pericoloso, attirati dal bianco splendente delle case, camminando verso la basilica di san Michele arcangelo
monte sant'angelo

Il promontorio sacro si innalza all’improvviso sulla pianura sonnacchiosa dell’Adriatico; la strada è impervia e piena di curve, mentre la si percorre il pensiero va alla fatica fatta dai pellegrini, nei secoli passati, che dovevano giungere a piedi o su animali da soma alla sommità del monte.

Qualche monaco eremita potrebbe obiettare che la via stretta e difficile è l’unica a poter condurre al cielo, ma a me, che riesco a guardare solo di sottecchi lo strapiombo che si apre via via sull’abisso azzurro del Golfo di Manfredonia, viene in mente solo l’improbabile sicurezza di questa strada.

Per fortuna i tornanti prima o poi terminano e, dopo il rilassamento della vista sui terrazzamenti – senza limiti la tenacia degli abitanti! –, appare il paese, arroccato sui suoi ottocento metri di terra che a volte sa essere davvero molto aspra. Entrando, veniamo accolti dal bianco splendente dell’intonaco delle case, che riflette la luce intensa di Puglia, cercando di proteggere dal calore l’interno delle abitazioni, quelle più antiche costruite a schiera, con la porta di sotto e un balcone-finestra di sopra, il tetto a spioventi su cui sono accovacciati comignoli di tutte le fogge.

Siamo arrivati a Monte Sant’Angelo. C’è molto silenzio, tra le vie medievali strette e intricate, almeno per la nostra percezione di cittadini; riverbera in ciascuno un’eco quasi interiore, e ci conduce, attraverso un’anonima stradina costeggiata da botteghe folkloristiche, all’approdo del santuario, la Basilica di San Michele Arcangelo, dal giugno del 2011 riconosciuta Patrimonio dell’umanità dall’Unesco, nell’ambito del sito seriale “I Longobardi in Italia: i luoghi del potere”. Il luogo è unico al mondo: terribilis est hoc locus, haec domus dei est et porta coeli. Impressionante è questo luogo. “Questa è la casa di Dio e la porta del cielo”, dicono le parole del portale superiore;  luogo che incute cioè timore e rispetto, devozione e anche paura di ciò che può avvenire.

Dovevano provare qualcosa di simile i longobardi, profondamente devoti all’angelo e a questo santuario, quando attraversavano le porte d’ingresso e poi prendevano a scendere i trecento gradini scavati nella roccia calcarea e umida dei corsi sotterranei del Gargano.

Lungo le pareti, il segno del tempo, degli uomini, dei popoli, degli aneliti dell’anima, perpetuati attraverso graffiti, forme di mani, di piedi, croci, nomi e nomi, anni, in scritture longobarde, bizantine, normanne, angioine, le moderne insieme alle antiche, sovrapposte le une alle altre fino a riempire del tutto lo spazio disponibile.

Così si arriva all’ingresso dell’antro, nascosto, terribile e celeste, insieme a tutte le anime incontrate, passando attraverso le porte bronzee, prodotte a Costantinopoli e trasportate nel santuario nel 1076: haec sunt ianua coeli.
La grotta sembra davvero una fenditura del paradiso, dalla forma di una enorme capanna che accoglie i pellegrini stanchi e affranti, mai consacrata da mano umana, perché fu l’angelo stesso a darle santità con la sua presenza fin dalla sua apparizione ad Elvio Emanuele nel 490, la prima delle quattro attestate in questi luoghi.

L’impronta del suo piede non si vede, nascosta e inaccessibile dietro l’altare, sotto la campana con la bellissima statua in alabastro, forse del Sansovino, forse di un autore napoletano del XVI secolo; eppure la presenza di qualcosa che sfugge i sensi e la ragione ti penetra dentro, dall’umida grotta calcarea, sopra le arcate angioine, nel silenzio arcano della profondità della terra che lasciano ascoltare la voce del cielo.

Si capisce come i longobardi, padroni del nord della Puglia a partire dal VII sec. fossero diventati veneratori e protettori di questo tempio cristiano straordinario. Questo popolo guerriero di recente convertitosi al  cattolicesimo, attratto dall’angelo che nei suoi tratti ricordava le caratteristiche dell’antico dio nordico Odino, fece diventare la Celeste basilica il prototipo delle  tante chiese che, sotto il vessillo dell’arcangelo, dal nord al sud dell’Europa attraverso la derivazione della Via Francigena detta, appunto, Via Sacra Longobardorum,  conduceva in linea retta a Gerusalemme; i suoi centri nevralgici erano Monte sant’Angelo, San Michele in Val Susa e l’altra straordinaria quanto misteriosa costruzione che è Mont-Saint Michel in Bretagna. Lungo questa via, di certo poco comoda e sicura, i pellegrini desiderosi di trovare Dio e il suo perdono si avviavano, senza essere certi di come e quando sarebbero tornati a casa.

Dove le rocce si aprono, lì i peccati degli uomini vengono rimessi. Questa è una dimora speciale, nella quale ogni peccato viene perdonato, così dicono le parole impresse nella pietra del portale inferiore: e questa era la ricompensa tanto anelata per chi si metteva in viaggio, spesso a rischio della vita. Forse, diversamente, succede ancora oggi. E il ritorno alla luce, ripercorrendo a ritroso e stavolta in salita il cammino che conduce al mondo dei mortali, sembra assumere quasi valore simbolico.

La grotta, vuoto dell’anima, pienezza del mistero, si chiude e continua a rimanerti dentro, mentre il paese continua a offrirti incantevoli scorci di arte, cultura, natura e gastronomia, con una luce che esplode ma dolcemente. Come se fosse diversa, adesso.
 

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