La memoria, perché può accadere di nuovo

Ricordare la Shoah non è esercizio riservato agli ebrei. È una ricorrenza universale per evitare che il peggio si ripeta
Cambogia Choeung Ek © Michele Zanzucchi 2009.JPG

In una città del Nord, in uno dei numerosi incontri sull’Islam cui mi capita ultimamente di presenziare, una signora di una certa età, elegantissima e con una dizione nobile, mi apostrofò per quello che avevo scritto in uno dei miei libri sui musulmani: «Lei dovrebbe denunciare a chiare lettere che quello che sta succedendo con le vicende del Califatto dice che abomini del genere non possono che nascere in ambienti sottosviluppati e da una religione oscurantista come l’Islam. Solo una fede che impedisce di mangiare quella benedizione di Dio che è il maiale può generare tali violenze». Incredulo, ho risposto alla signora impellicciata con una semplice domanda: «Madame, secondo lei, nazismo e stalinismo sono maturati in ambiente islamico?». La signora s’è seduta bofonchiando qualcosa contro l’aria e i mala tempora

 

Ricordo quest’episodio, accaduto appena lo scorso anno, perché mi sembra che la Giornata della memoria cada ad hoc in questo 2016, per ricordarci che, nel grande trambusto che sconvolge Medio Oriente, Europa e anche non pochi Paesi africani e asiatici, trambusto definito da papa Francesco una «Terza guerra mondiale a pezzi», bisogna mantenere i nervi saldi e cercare a tutti i costi la conciliazione, il dialogo e la pace. Questo è infatti il solo antidoto contro possibili derive che, se non esplicitamente indirizzate a un qualche genocidio, possono comunque portare (e già portano) a gravissime stragi, a diminuzioni di libertà, a soprusi e inganni.

 

Fare memoria vuol dire rendere di nuovo presente qualcosa che è avvenuto nel passato. Rivivere per non ripetere. Fissare lo sguardo su foto dei detenuti di Auschwitz o Birkenau, rileggere Arcipelago Gulag di Solgenitzin, fare una visita a Choeung Ek, principale campo di concentramento dei khmer rossi cambogiani, o rendere omaggio al Monumento al genocidio nella capitale armena Yerevan: sono esercizi meditativi cui nessun uomo e nessuna donna che ha a cuore il bene comune dovrebbe sottrarsi in questa giornata. Per capire che l’abominio può maturare anche nel cuore degli uomini del XXI secolo. Cioè nel nostro cuore, come tanto bene aveva spiegato René Girard, recentemente scomparso. Che aveva indicato il carattere “redentore” della sofferenza innocente, esemplificata nella figura del Cristo in croce e di tutti coloro che volontariamente assumono su di sé la violenza indicibile per indicare quella via radicale alla pace, al perdono e alla riconciliazione che è la mitezza.

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