La lingua speciale di Uri

Mevesaret Zion foto di Gilabrand

Mevesaret Zion, formato da due comuni distinti unificatisi nel 1963, è un moderno sobborgo di Gerusalemme situato su un crinale di montagna a 750 metri sul livello del mare, con una popolazione di circa 23 mila abitanti: ebrei immigrati agli inizi degli anni Cinquanta per lo più da Iraq, Kurdistan, Nord Africa e Iran. Prende nome dal libro di Isaia 40,9: «Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion!».

 

Grazie alla sua posizione strategica, i romani vi fondarono una fortezza sulle cui rovine i crociati costruirono un castello, Castellum Belveer, a sua volta demolito dagli arabi di Saladino, che ribattezzarono la città al-Qastal: della sua distruzione e della strage dei cristiani che ne seguì fa menzione Eraclio, patriarca di Gerusalemme, in una lettera del settembre 1187.

 

Di antico rimangono i resti di una struttura medievale, Khirbet Beit Mizza, che forse insistono sul sito biblico di Mosa: una delle città delle tribù di beniamino citate nel libro di Giosuè (18, 26). Inoltre scavi di emergenza effettuati nell’aprile-maggio 2003 hanno riportato alla luce una grotta sepolcrale risalente alla metà del periodo del Secondo Tempio (iniziato nel 597 a.C. con l’esilio babilonese e durato fino alla distruzione ad opera dei romani del 70 d.C.).

 

Un profondo canyon attraversa Mevesaret Zion, creando una sorta di polmone verde-giallo dovuto alla vegetazione e agli anfratti rocciosi, per residenti e turisti suggestiva meta di escursioni nelle quali non mancano interessanti resti di antichi torchi e impianti agricoli. Nel fondo scorre il Nahal Halilim, affuente del più ricco d’acque Nahal Sorek, noto in arabo come Wadi Surar. Tra i bacini idrografici più importanti della Giudea, è menzionato nel libro dei Giudici (16, 4), là dove è scritto che Sansone «si innamorò di una donna della valle di Sorek, che si chiamava Dalila».

 

In questa zona Israele ha installato, dei suoi due reattori nucleari, quello accessibile alle ispezioni internazionali. Ma non è di questo che vorrei parlare. Mevesaret Zion è anche luogo di residenza di uno dei più importanti scrittori contemporanei, e non solo di Terra Santa: David Grossman. Nato nel 1954 a Gerusalemme, ha cominciato in una radio israeliana, come corrispondente di un programma per ragazzi, la sua carriera di giornalista e scrittore universalmente noto per le sue opere di narrativa e per i saggi di forte impegno civile. Tra i suoi romanzi tradotti in italiano vanno citati: Vedi alla voce: amore, ritenuto il suo capolavoro, Che tu sia per me il coltello, Qualcuno con cui correre e Col corpo capisco.  Ma è autore anche di diversi titoli per ragazzi.

 Molte sue storie, se lette superficialmente, possono sembrare destinate ad un pubblico di giovanissimi, sebbene tocchino temi profondi ed universali. Eccone un saggio:

«Tattetoteteto te u uatotato», grida all’improvviso il piccolo Uri dal sedile posteriore della macchina. «Dov’è l’ascensore che ha chiesto se c’è più cioccolato?… Chi è che fa colazione col bue muschiato?», azzardano i genitori seduti davanti, nel tentativo di decifrare i suoni emessi dal loro rampollo di un anno e mezzo. «Macché – ride a crepapelle il fratello maggiore Yonatan, cinque anni –. Lui vuol dire: “Attenzione, dietro c’è un autocarro”».

Il fatto è che quel tipetto dai capelli rossi come quelli del padre comincia appena a parlare, ma usa solo le vocali e non sempre tutte quelle che ci sono in una parola, mentre delle consonanti riesce a pronunciare soltanto una, la T.

Di nuovo Uri: «Toto tutito tati to tatotetto». «Cosa? – si stupisce la nonna –. Il nonno è fuggito in taxi col divano letto?». «Non ha detto così – si sbellica dalle risa Yonatan –. Nessuno di voi capisce la lingua di Uri. Voleva dire: Il nonno ha pulito gli occhiali col fazzoletto». Semplice, no?

Mentre i grandi, con tutta la loro buona volontà, prendono cantonate, solo Yonatan, che «non è più piccolo ma non è ancora grande», facendo da ponte fra questi due mondi, è in grado di capire certi malintesi. E a lui, infatti, vanno i ringraziamenti degli adulti, le cui fantasiose ma sbrigative interpretazioni tradiscono a volte l’incapacità di immedesimarsi sul serio nei piccoli.

Di tali esilaranti equivoci è piena la breve favola dedicata da Grossman al suo secondogenito. Favola leggera, deliziosa, sul valore della parola e la necessità di mediare per risolvere i piccoli-grandi equivoci dell’incomprensione, La lingua speciale di Uri (Mondadori) attinge all’esperienza familiare dell’autore che la scrive nel 1990, quando chi l’ha ispirata ha solo due anni.

Ma è il “dopo” che ci tocca in ben altra maniera. Uri diventa adulto, in grado finalmente di farsi capire. Si appassiona di viaggi, di teatro. È un ragazzo «con dei valori», gioviale e benvoluto da tutti, dotato di «un favoloso senso dell’umorismo» e di «una saggezza molto più profonda di quella dei suoi anni»; «una grande anima piena di vita e di emozione», che ha «illuminato» la vita dei suoi; un «figlio e amico» al tempo stesso, di cui il padre – sono suoi questi apprezzamenti – è «orgoglioso di avere l’onore di essere il confidente».

Poi, durante la seconda guerra del Libano, lasciando sbigottiti i genitori, Uri si arruola nell’unità corazzata e realizza il suo sogno di diventare comandante di un tank. Ha poco più di vent’anni quando il 13 agosto del 2006, poco prima del cessate il fuoco imposto dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, viene ucciso da un missile lanciato dagli Hezbollah.

Con quel figlio al fronte, lo scrittore – da sempre uno dei più convinti sostenitori del dialogo e della convivenza – aveva faticosamente cambiato idea, appoggiando il conflitto israelo-libanese da lui ritenuto legittima difesa; salvo poi a ritornare alle proprie convinzioni pacifiste. Difatti, appena tre giorni prima della sua tragedia familiare, Grossman, assieme agli scrittori Amos Oz e Abraham Yehoshua, sollecitava dal governo israeliano un accordo per il cessate il fuoco come base per negoziare una soluzione concordata.

È il 17 agosto. Stavolta, davanti alla tomba del figlio, con accenti teneri, commossi e colmi di dignità, è il padre a parlare ad Uri nella sola lingua che tutti gli uomini di tutti i tempi sono in grado di capire: quella del dolore, quella dell’amore.

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