La Libia e l’inciampo della guerra

La morte dei due lavoratori italiani dimostra quanto si sia ormai in clima di conflitto a Tripoli, Tobruk, Bengasi, Sirti... Una riflessione sulle ragioni per evitare a tutti i costi un'escalation militare
Libia torna alla normalità

Assistiamo in queste ore e in questi giorni a un progressivo avvicinamento alla Libia, nel segno della guerra e non della pace e del dialogo. Tutti sono pronti, molti sono già operativi, nei diversi modi che la guerra tecnologica oggi permette. Anche i droni italiani sono operativi.

 

L’obiettivo dichiarato è quello di sconfiggere l’Is e la sua presenza militare in Libia. Al tempo stesso ci sono altri interessi, legati a tale obiettivo, che vanno dalla questione petrolifera alla gestione del Mediterraneo nel suo complesso.

 

Nella comunità internazionale si ribadisce che ogni intervento militare da parte delle Nazioni unite deve avvenire sotto il governo di Unità nazionale, che dovrebbe nascere nel Parlamento libico.

 

Assistiamo ogni giorno ai balletti e ai conflitti che attraversano tale Parlamento, che a oggi, dopo mesi di mediazioni stabilite e poi annullate un secondo dopo, non è però in grado di comporre un governo di unità nazionale stabile, forte e riconosciuto.

 

Questo governo, che non c’è e che in qualche momento per interessi di comodo si fa finta che ci sia, dovrebbe nella sua autorità (?) chiedere l’intervento militare della comunità internazionale, legittimando in questo modo le procedure dell'Onu… Percorso estremamente irto di ostacoli.

 

Il ministro degli Esteri Gentiloni dice che l’Italia può assumere il comando delle operazioni politico-militari se la richiesta proviene dalle Nazioni Unite e dal governo di unità nazionale votato dal Parlamento libico. Speriamo che tutto avvenga in modo serio e responsabile. Non ci possiamo contentare di un governo fantoccio, per soddisfare i nostri cupi desideri di guerra.

 

Quel voto in tutti questi mesi (anni, verrebbe da dire, dal marzo 2011, quando è iniziata la guerra) non è avvenuto, perché sono troppi gli interessi in gioco, troppi Paesi mostrano di sostenere strumentalmente una Libia disastrata per svolgere il loro ruolo politico-militare in tutto il Mediterraneo. Basti pensare all’Egitto, all'Arabia Saudita, alle potenze occidentali. Sono state umiliate le tribù, perdendo quindi il rapporto con i territori, che a loro volta hanno cercato sostegni in molte direzioni, anche le più radicali.

 

Sono state enfatizzate le forze in campo per alimentare la minaccia e moltiplicare la paura. Il Corriere della sera, a proposito dell’Is, parlava di un esercito nel suo complesso passato da 40 mila a 200 mila uomini. I numeri alimentano la paura e spengono l’intelligenza. In questo contesto confuso e pasticciato, dove ognuno cerca di nascondere interessi inconfessabili e non dichiara le sue finalità politiche, il nostro governo avvierebbe un'operazione militare dagli esiti difficilmente prevedibili.

 

La missione italiana, il nostro intervento militare, che viene presentato come sempre più vicino, coinvolgerebbe dai 3 mila ai 5 mila uomini. Esso avverrebbe in questa situazione confusa e sarebbe giustificato da un governo di unità nazionale fragilissimo e pronto a dividersi in ogni momento, con il rischio di esporre i nostri soldati a situazioni terribili.

 

A distanza di 10 anni, il confronto con la guerra in Libano non si pone. Altra fu allora la regia politica, altra la conduzione militare e altre le forze di interposizione chieste dai soggetti in campo, che trovarono nella leadership italiana un punto di forza e di unità, al punto che ancora oggi quell’accordo resiste. E le forze di interposizione non hanno sparato un colpo.

 

La qualità delle forze di interposizione è nel non fare la guerra, non nel farla. È nel costruire ponti di pace e non muri di guerra.

 

A me non interessa un pacifismo retorico, ma rifiuto un bellicismo ideologico. Si legge sui grandi giornali con grandi firme che bisogna superare l'ipocrisia sulla guerra facendo la guerra. Io credo che bisogna combattere l’idolo della guerra, che ha la pretesa di cancellare le nostre paure, moltiplicandole e diffondendole. L’idolo che ci seduce, perché rassicura rispetto a una politica debole e fragile.

 

Le grandi potenze occidentali (compresa l’Italia,che il segretario di Stato alla Difesa americano ha candidato al grido dell’intervento militare) dovrebbero fermare il mercato delle armi. Se in questi anni siamo passati da 40 mila a 200 mila soldati sul campo vuol dire che le armi sono aumentate del 500% (a meno che usino solo le mani). E non si hanno notizie di interventi per fermare il mercato osceno delle armi .È noto che l’Is non produce armi, ma le compra e le usa. E cosi i soldati da pagare e da gestire. 

 

Ricostruiamo allora il tessuto della società libica, coinvolgendo le tribù, senza le quali la Libia rimane ostaggio degli interessi dell’occidente e dei potentati regionali, e senza le quali non si arriva a nessun serio governo di unità nazionale. Al tempo stesso bisogna bloccare le bande di banditi, che diventano una presenza tragica e pericolosissima in queste situazioni.

 

Blocchiamo i sostegni all’Is, che passano dai grandi centri finanziari del mondo che sulla guerra si arricchiscono. Anche la questione del petrolio deve essere gestita in modo unitario e non in ordine sparso, altrimenti si arriva al paradosso che sulla guerra e sul petrolio molti ci guadagnano. La guerra aiuta il Pil. E sostiene l’Is.

 

In questo scenario, i francesi sono già operativi, gli americani stanno arrivando e noi abbiamo mandato un po’ di droni e alcuni uomini dei servizi e delle truppe speciali. In questi casi prudenza vorrebbe più silenzio negli annunci, per non creare ulteriori complicazioni sia a chi vive sia a chi opera lì.

 

Sono passati cinque anni, dal 19 marzo 2011, quando la Libia è diventata sinonimo di guerra. Bisognerebbe riconoscere con più lealtà quell’errore e non ripeterlo oggi, con altre modalità.

 

Non ci sono scorciatoie. Solo la politica può inaugurare un tempo drammatico e difficile di pace, in cui i generali, che sanno davvero che cosa sia la guerra nella sua durezza e drammaticità, sono i veri cercatori della pace, perché essi sanno che la guerra uccide nella sua durezza e violenza e non nascondono la verità. La politica, al contrario, per il consenso, è disposta a giustificare molte cose, in primo luogo la guerra. La politica preferisce la guerra alla verità.

 

Oggi ci fermiamo qui, alla guerra nel cortile di casa. Domani cercheremo parole cristiane sulla guerra.

 

Ps. Apprendo dalle agenzie dell'uccisione di due lavoratori italiani in Libia. Dedico a loro quanto scritto.

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