La libertà di ricominciare da zero

Dopo la disfatta azzurra, è quella di cui gode, paradossalmente, il nuovo ct Cesare Prandelli.
prandelli
Senza scuse, senza giustificazioni. E senza rimpianti. Non solo torniamo a casa dal Mondiale, per la prima volta senza aver vinto nemmeno una partita, ma senza nemmeno aver giocato. È fin troppo facile, dopo aver dato fiato per dieci giorni, con tanta illusione, alle vuvuzelas, dare ora fiato alle critiche. La vittoria ha tanti padri, la sconfitta nessuno, e ad un popolo di commissari tecnici come il nostro oggi non manca certo la materia per attizzare polemiche.

 

«Io l’avevo detto», è stata la frase più ricorrente nel pomeriggio della disfatta con la Slovacchia. Per settimane, per scaramanzia o per spirito di corpo, l’avevamo trattenuta, pensata e non detta, sussurrata solo a chi non ci avrebbe accusato di gufare. Ma non si può negare che la povera armata azzurra non aveva né uomini, né mezzi all’altezza della difesa di un titolo mondiale. Quelle degli azzurri negli stadi del Sudafrica sono state tre misere apparizioni da semplici comparse. Persino quel malinconico «Mi assumo tutte le responsabilità» pronunciato da Lippi per giustificare le sue scelte, le convocazioni e le formazioni, e che pure, da uomo onesto qual è, gli fa onore, appare non indispensabile in questo momento. E soprattutto non esaustivo, per chi mastica di calcio, a spiegare la nostra parabola vertiginosamente discendente. Una parabola che ha raggiunto il rassicurante punto più basso ieri nello stadio simbolo del riscatto del popolo africano dall’apartheid, ma che era, nessuno ce ne voglia, iniziata nella trionfale notte di Berlino di quattro anni fa. Non solo gli epici Del Piero, Totti o Materazzi erano al capolinea, ma lo erano, e non ce ne siamo resi conto, o non abbiamo voluto rendercene conto, Cannavaro, Zambrotta, Gattuso, ed altri che ieri sono stati chiamati (o riesumati?) a difendere i nostri colori.

 

Dopo Berlino si doveva probabilmente avere il coraggio di voltare pagina e di investire di più: il presidente della Federcalcio, Abete, diffidando in fretta del timido Donadoni, ha richiamato dalle campagne e dalle spiagge della dolce Versilia il Cincinnato Marcello Lippi, facendo una scommessa più sul passato che sul futuro. E come fu per la monaca di Monza, «lo sventurato rispose», Lippi ha accettato. Illudendosi che quattro anni in più non incidessero sul rendimento di alcuni campioni del mondo e fidandosi, senza remore, del blocco Juventus, una squadra arrivata settima in classifica dopo un campionato disastroso. Gli infortuni di Pirlo e Buffon non l’hanno aiutato; l’atteggiamento spavaldo da “soli contro tutto e tutti”, ostentato in questi dieci giorni, non gli è bastato per motivare un gruppo di giocatori definiti da molti, impietosamente, ma purtroppo giustamente, dei “bolliti”.

 

Dietro i palesi limiti motivazionali, tecnici ed atletici messi in mostra in Sudafrica c’è un calcio italiano rimasto fermo al palo quattro anni fa. Un calcio che non è stato capace, per diversi motivi, di fornire validi ricambi: il trionfo dell’Inter, che pure ci ha esaltato, e le modeste prestazioni delle nostre under 17, 19, 21 e via dicendo, sono forse le due testimonianze più emblematiche. Da un lato una squadra straordinaria, ma senza alcun italiano in campo, frutto di quella sagacia commerciale esterofila che trova sempre nuovi club adepti, e dall’altro una miope diffusa indifferenza verso la cura del settore giovanile da parte dei nostri club. Oggi un ragazzo con un minimo di talento non trova spazio e cerca, se vuole almeno giocare, l’avventura all’estero, salvo poi svaporare in fretta. Non possiamo nemmeno contare, a differenza, ad esempio, della Svizzera o della Germania, su un’immigrazione di giovani con bramosa voglia di mettersi in luce.

 

A forza poi di ripetere, sistematicamente, che conta il risultato e non il bel gioco, in Italia non si vedono da tempo giocatori capaci di saltare l’uomo, di liberare la fantasia, di mettere in mostra forza e velocità. Se poi la fiducia di cui gode un mister nel poter fare con cura e con lungimiranza il proprio lavoro è pressoché nulla (15 allenatori della serie A su 20 sono stati esonerati nell’ultimo campionato!) si capisce perché fra gli allenatori la paura di perdere abbia la meglio sulla voglia di vincere e la qualità del gioco non sia una priorità. Siamo il paese in cui il 4 – 4 – 2, che impone difesa arroccata e contropiede, è il modulo più praticato. Non è un caso che al mondiale il Centro e Sud America, che ha messo questo modulo nel cassetto, porti sei squadre al secondo turno, con soli sei goal subiti e ventiquattro fatti, squadre che giocano con tre attaccanti, che sviluppano le manovre sulle fasce, che mettono in campo velocità e fantasia. «Prandelli – afferma stamane Rivera, in campo nel ’66 nella disfatta contro la Corea – ha paradossalmente un vantaggio: la libertà di ricominciare da zero».

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