La guerra serve all’economia?

Boom degli affari per le industrie di armi nel mondo. Non solo negli Stati Uniti di Trump. Intervista all’economista Raul Caruso, coordinatore del Network of European Peace Scientists
EPA/ZOUHIR AL SHIMALE

Raul Caruso insegna Politica economica ed Economia internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dirige, negli Usa, la rivista specializzata “Peace Economics, Peace Science and Public Policy” e collabora come editorialista con il quotidiano “Avvenire”. In un recente testo pubblicato da Il Mulino, ha illustrato i risultati di ricerca di un ambito poco esplorato della scienza economica (“Economia della pace”), ma che ha padri autorevoli e nobili come Keynes e Arrow. L’abbiamo intervistato sulle cause e conseguenze economiche di guerre e altre forme di violenza. Lo studioso, che è anche coordinatore del  Network of European Peace Scientists , si occupa pure di incentivi e istituzioni che possono contribuire alla risoluzione dei conflitti.

Partendo dall’attualità, il terrorismo sembra essere la principale minaccia alla pace. Nel 2015 alcuni suoi studi su questo tema sono stati ritrovati fra i documenti di Osama Bin Laden nel suo rifugio in Pakistan. Cosa abbiamo imparato da quella sorprendenti scoperta?
«In effetti ancora non troppo. La tesi di quei miei studi era che il terrorismo internazionale non è coordinato da una regia comune, ma piuttosto degli atti di piccoli gruppi che cercano visibilità per poi ricevere l’imprimatur da un grande sponsor. Ho paura che la situazione sia analoga, vedo giovani che compiono atti di infinta crudeltà in maniera autonoma e poi le organizzazioni islamiste rivendicano. Sembra che non si riesca ragionare senza immaginare una regia comune. È più semplice perché combattere senza punti di riferimento è molto difficile. Ma per molti aspetti ci impone anche dei costi elevati, come ad esempio il ricorso alla guerra su larga scala o l’aumento delle spese militari».

Una credenza molto diffusa fra l’opinione pubblica è che la guerra faccia bene all’economia. Quali sono secondo te i fattori che hanno contribuito ad una tale percezione, visto che i dati che presenti nel tuo lavoro dicono il contrario?
«L’idea fallace che le spese militari sostengono lo sviluppo è di matrice nazista. I gerarchi dovevano coprire i propri fallimenti economici e allo stesso tempo sostenere il militarismo. Nazismo e comunismi sono stati feroci regimi totalitari e quindi militaristi. Ma tutta l’Europa nel ‘900 ha vissuto fascismi e totalitarismi, compresa l’Italia ovviamente. La cultura militarista proviene dal nostro passato fascista».

Sembra esserci una paradossale tendenza nel mondo contemporaneo: da un lato più connessione e rapporti orizzontali basati sulla fiducia e collaborazione, ma dall’altro lato sono aumentate le figure di sorveglianza come è accaduto nel mercato del lavoro USA da fine ottocento ad oggi (dal 6% del 1890 al 26% del 2002). Come possiamo uscire da questa contraddizione?
«In verità i sistemi gerarchici nelle organizzazioni hanno fatto il loro tempo. In passato vi era l’idea appunto che le organizzazioni militari fossero le migliori, incontestabili e quindi le organizzazioni ‘civili’ volevano scimmiottarle. Si è capito che era sbagliato.

Possiamo uscire da questa contraddizione solo investendo nell’educazione continua.

È brutto dirlo, ma gran parte della nostra classe dirigente ha dei livelli di istruzione bassi. In particolare bisogna recuperare l’idea che l’educazione deve servire a liberare le migliori energie dell’essere umano e non prepararlo necessariamente al mondo del lavoro. Io, da docente universitario, ad esempio, ti dico che quando le università hanno cominciato a “inseguire” la realtà hanno cominciato a fallire».

Le principali cause di conflitto in Africa sono di natura economica. Sembra di capire che Occidente e Cina abbiamo approcci molto diversi nel reperire materie prime strategiche in quel continenti. Il gigante asiatico può essere un attore “pacificante”?
«La Cina finora non è stata particolarmente aggressiva, anche se il comportamento che ha rispetto ai confini delle proprie acque territoriali costituisce un problema serio. Non penso che la diversa gestione nel reperimento delle materie prime faccia la differenza. In fondo non esiste un vero e proprio modello cinese di approccio ai mercati delle materie prime nei paesi a basso reddito. Quindi direi di no. Rispetto al mercato della materie prime una cooperazione seria per la stabilizzazione dei prezzi internazionali sarebbe molto più utile».

Spesa militare e sviluppo economico. L’esperienza mostra che la prima è un fattore di impedimento al secondo. Cosa possono fare i cittadini per spingere i governi a scelte più lungimiranti?  
«I cittadini devono pretendere che si parli di questo tema. In primo luogo, non bisogna smettere di parlarne nella società civile e poi fare in modo che tali discussioni arrivino ai policy-maker. Purtroppo il nostro dibattito è dominato sempre dagli stessi temi, che pur importanti non sono certo da anteporre al tema della pace. Tutti i ragionamenti perdono di efficacia quando non esiste un mondo di pace.  I media a questo proposito hanno una grande responsabilità. Speriamo si riescano a smuovere le acque in questo senso. In secondo luogo, la partecipazione femminile alla vita pubblica deve essere incentivata. È dimostrato che classi dirigenti con numeri più elevati di donne si concentrano, in particolare a livello locale – su temi nuovi e più proiettati al futuro come la cultura e l’istruzione. A questo è legato il fatto che i cittadini si impegnano a scegliere una classe dirigente che abbia livelli di educazione elevati. È preoccupante che un paese come l’Italia abbia ministri che non siano almeno laureati. Non me ne vogliano i diplomati, ma – come ho detto prima – studiare qualche anno in più migliora le persone e le rende più idonee ad affrontare i problemi e in particolare ad avere prospettive più ampie. In ultimo, non bisogna mai smettere di vivere la democrazia, mai smettere di rappresentare legittimamente degli interessi. Attualmente le nuove tecnologie consentono una maggiore facilità di organizzazione e comunicazione, la pratica democratica può guadagnarne».

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