La guerra che nessuno vuole, neppure Biden

Il presidente ha dichiarato a più riprese che non interverrà, poiché un conflitto atomico diventerebbe inevitabile, ma potrebbero esserci anche altre ragioni
Biden

(da New York) 52%È questa la percentuale di americani che chiede al proprio presidente di avere un ruolo minimale nella guerra tra Russia e Ucraina.  Il 20%, addirittura, domanda a Joe Biden di abbandonare il campo definitivamente. Un timido 23% invoca una maggiore presenza. Il sondaggio condotto da The Associated Press e dal Norc, il Centro di ricerca di Politiche pubbliche, è chiaro. Gli statunitensi non vogliono una guerra, temono l’impatto delle sanzioni anche sulla loro economia e non vogliono che nuovi attacchi hacker mettano sotto scacco e sotto ricatto le infrastrutture critiche del Paese, gli ospedali, le aziende, le agenzie governative.

Un coinvolgimento diretto non lo vuole neppure il Congresso, anche se qualche falco continua a premere su un presidente “dormiente” che dovrebbe svegliare l’imperialismo statunitense e riaprire nuovo confronto tra superpotenze, lasciandosi alle spalle l’era delle regole e delle normative internazionali. A supporto della tesi interventista si cita l’intervento Usa del 1991 in Kuwait dopo l’invasione irachena. I consiglieri alla sicurezza chiariscono che è vero, gli Usa intervennero come membri di una coalizione sotto l’egida delle Nazioni Unite, ma la differenza tra il 1991 e il 2022 è che non erano in gioco le armi nucleari. Saddam Hussein non ne possedeva alcuna, Vladimir Putin ha a sua disposizione ben 6 mila testate atomiche e questo fa la differenza.

Stati Uniti e Russia controllano insieme circa il 90% delle testate nucleari mondiali. Il problema però non sono solo i numeri, ma la struttura dell’arsenale: ognuno dei due Paesi ha quella che in gergo tecnico si chiama “la capacità di secondo attacco”, che prevede la possibilità dopo un primo attacco nucleare, una vendetta di pari potenza. Biden non vuole passare alla storia come il presidente che lo ha scatenato. «Lasciatemelo ripetere: le nostre forze non sono − e non saranno – impegnate nel conflitto con la Russia in Ucraina», ha detto il presidente nel discorso di giovedì sera in cui annunciava pesanti sanzioni contro il sistema economico e finanziario di Mosca, concordate con gli alleati europei. Sanzioni che venerdì si sono estese anche al presidente Putin e al suo ministro degli Esteri Lavrov.

Che Biden non voglia la guerra, lo provano le tre decisioni critiche sulla gestione delle provocazioni russe prima dell’attacco: la condivisione delle informazioni dell’intelligence Usa con gli alleati Nato, la ricostruzione delle alleanze per tornare ad essere un fronte unico con l’Europa sulle sanzioni e sulle risposte a Mosca; la deterrenza. Non sono state sufficienti a fermare Putin. Come non lo sono stati i 650 milioni di aiuti in armamenti forniti da Washington a Kiev lo scorso novembre per preparare l’esercito. Biden non varcherà quel confine. Anche se ci sono le telefonate, gli aiuti umanitari, l’addestramento online per i militari ad attraversarlo costantemente, nessun uomo o mezzo della Nato lo farà.

Non lo scompone nella sua determinazione neppure l’intervento ad effetto dell’ex presidente Trump che ha lodato la “genialità” del presidente russo, ben diversa da quella di Biden. La provocazione ha però mancato il bersaglio perché Trump è stato scaricato da autorevoli membri del partito Repubblicano e persino dal suo ex consigliere alla sicurezza, H.R. McMaster, che ha ribattuto: «Putin non è certamente qualcuno da lodare, mentre dovremmo essere incoraggiati dalla reazione di tutto il mondo libero, perché in realtà ciò che Putin vuole più di ogni altra cosa è la disunione».

Chi continua a sognare un ritorno imperialistico si trova disilluso. Biden sa che un attacco alla Russia potrebbe rinsaldare il legame con la Cina, con risvolti non prevedibili sul resto dell’Asia, ma anche nel bilanciamento delle potenze mondiali.

Il presidente americano ha avuto molti ripensamenti sulle sue scelte passate a favore delle guerre. Nel 2005 si era pentito di aver votato a favore di quella in Afghanistan nel 2001, senza immaginare che sarebbe toccato a lui concluderla senza gloria e senza onore. Da vicepresidente, poi, si era fermamente opposto ad Obama sull’invio di ulteriori truppe a Kabul. Accanto alle valutazioni politiche che accompagnano il non interventismo, potrebbe essercene una personale. Biden sa cosa significa avere un figlio al fronte. Beau, il maggiore, prima di essere stroncato da un cancro, aveva combattuto in Iraq. L’orgoglio di difendere la patria non è bastato a colmare tanti vuoti, in momenti cruciali della vita della loro famiglia.

A non volere la guerra, infine, sono Saba e Darina, membri della numerosa comunità ucraina a New York (150 mila), che sabato si ritroveranno ancora una volta a Time Square per sostenere il loro popolo e chiedere la pace. Lo hanno fatto giovedì, in un corteo, preceduti dalla bandiera blu e gialla del loro Paese. Darina è arrivata negli anni ’80, quando Kiev era sotto la tenaglia di Mosca, Saba invece è stato assunto in una Big Tech, che conta tra le fila numerosi dei suoi connazionali, apprezzati proprio per le loro competenze digitali. A Washington, gli ucraini si sono ritrovati sugli scalini del Lincoln memorial con la cerimonia “Stand With Ukraine“. Insieme hanno cantato Panychida, una preghiera per commemorare i morti in un conflitto, in attesa di tornare a cantare la preghiera della pace.

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