La gentilezza per superare le crisi

Intervista al filosofo napoletano Aldo Masullo sul film "Fuoco su di me" di Lamberto Lambertini, che continua a fare incetta di riconoscimenti internazionali
Fuoco su di me

Il film Fuoco su di me del regista Lamberto Lambertini, presentato a Venezia nel 2005, vinse il Premio “Cinema della cultura e del dialogo”. Distribuito dall’istituto LUCE uscì nelle sale il 31 marzo 2006. Due anni dopo un articolo del filosofo Aldo Masullo pubblicato su “Il Mattino” di Napoli rilanciò il film, che iniziò da quel momento un suo percorso originale presso le scuole e le associazioni culturali, vinse il Premio Roberto Rossellini ed altri riconoscimenti.

Da allora, fino ad oggi, il film è stato richiesto in rassegne e festival internazionali: America, India, Russia, Europa e Cina come esempio tipico di film italiano che coniuga bellezza e contenuti.

Viene pubblicata la sceneggiatura del film per i tipi di Libero editore e la Cecchi Gori  presenta il dvd che continua ad avere buon successo di vendita. Acquistato recentemente da molte televisioni estere, entra nella lista dei 15 film più venduti nel mondo degli ultimi 10 anni.

Attualmente è stato inserito nella rassegna retrospettiva cinematografica “Napoli a Shangai” quale uno dei cinque film che meglio hanno portato nel mondo la proposta culturale italiana ispirata a Napoli e che si svolto dall'1 al 7 novembre 2013 presso l’Europe economics college of Shanghai. L’intervista qui riportata al filosofo Aldo Masullo è stata registrata a Napoli, dopo aver rivisto il film con numerosi giovani delle scuole napoletane, al cinema Modernissimo.

Lei ha scritto uno degli articoli più belli sul film Fuoco su di me, il cui titolo “Napoli e un sogno condiviso”[1] è diventato anche il tema di fondo di alcuni incontri culturali sulla situazione napoletana e sul suo sviluppo, partendo proprio dalla visione del film di Lambertini.
«C’è un frammento di un grande pensatore greco, molto più antico di Socrate, il quale dice che “nella veglia siamo tutti accomunati ma nel sogno ognuno è solo”. Credo che nessuno di noi sia riuscito a fare un sogno con qualcun’altro, per cui l’espressione “un sogno condiviso” è  per gli studiosi di retorica un ossimoro, ossia un’espressione contraddittoria: se è un sogno non può essere condiviso, se è condiviso non è un sogno… In realtà il film Fuoco su di me ci permette di usare questa espressione in quanto, dicendo “Napoli è un sogno condiviso”, si vuol dire che la Napoli in cui viviamo è una Napoli condivisa, ma non è un sogno… Viceversa molti di noi napoletani, mentre condividiamo le nostre ansie, le nostre difficoltà, qualche volta la nostra rabbia, questa Napoli vorremmo poi anche sognarla diversa, non da soli ma insieme agli altri. Cioè riuscire a trasformare questa realtà ribollente di forze che si contrastano, ribollenti di difficoltà, di pericoli, in sogno, ma non nel sogno di chi dorme da solo, quanto nel sogno – è qui il miracolo –  di persone reali, che sognano insieme di trovarsi in una Napoli diversa in cui possano trovarsi insieme senza rischi, fatiche, pericoli o perdite di tempo».

Napoli viene additata spesso come la capitale del tempo perduto e il napoletano come colui che s’addormenta anche quando ci sarebbe da rimboccarsi le maniche. Non così nel film.
«La laboriosità non manca a Napoli, ma bisogna dire per amore di verità che Napoli è stata e lo è tuttora macinatrice di tempo inutile, di tempo perso. Basti pensare al traffico stradale e al tempo necessario per spostarsi da un punto all’altro della città.  Eppure, per l’uomo non c’è niente di più prezioso del tempo perché il tempo è la vita e pertanto riuscire a governare il tempo, riuscire a risparmiare gli sprechi, riuscire ad assaporare lo spessore del tempo ci permetterà di fare di ogni momento un momento straordinario. È quello che accade ai protagonisti del film di Lambertini».

Anche il dibattito che si è acceso intorno al film è per lei un momento straordinario?
«Assolutamente, perché lo straordinario sta nell’ordinario. Quando ci siamo incontrati per vedere insieme Fuoco su di me e poi riflettere e discutere – cosa c’è di più ordinario? – è stato quello un momento straordinario. Perché quel nostro incontro non è stato distratto, non è stato convenzionale, ma un incontro in cui ognuno di noi ha cercato di capire insieme con gli altri qualcosa di più della realtà. Lo straordinario sta nella quotidianità, – non voglio dire che solo se precipitiamo in un fosso viviamo la straordinarietà dell’esistenza -,  nel senso di riuscire a trasformare, in un particolare momento della giornata, un sogno in realtà. Riunendoci insieme per vedere questo bellissimo film, noi abbiamo trasformato la nostra ordinarietà in straordinarietà, e abbiamo fatto del sogno una realtà da vivere come cittadini, come napoletani».

Quale il tema di fondo di "Fuoco su di me" che le appare straordinario nella sua ordinarietà?
«In questo film si celebra quello che è il segreto di questa nostra città e, in quanto segreto, è quello che meno riusciamo a intendere quotidianamente; questo segreto è la gentilezza che è contro luogo, perché normalmente la città non appare gentile, è contro tempo perché la nostra età non è generalmente un’età gentile. Ma gentile non significa debole; gentile significa la forza che non ha bisogno della violenza per affermare la verità; gentile significa capacità di parlare con gli altri a cuore aperto, capacità di ascoltare gli altri, anche quando dagli altri ci viene soltanto un sussurro che noi dobbiamo amplificare con la nostra intelligenza, con la nostra attenzione, con la nostra umanità; allora ci rendiamo conto che la gentilezza è una chiave della nostra possibilita di superare la crisi del nostro tempo. Sì, la gentilezza, che include anche la tenerezza, è il tema di questo film dal punto di vista dei contenuti o dal punto di vista formale. La forma di questo film è la gentilezza».

Ma la tenerezza è solo della donna?
«La qualità della tenerezza non è solo della donna, ma una qualità di quel femminile che vive in ciascuno di noi, così come anche il maschile vive nelle donne. Noi siamo sempre portatori delle due metà dello spirito, e siamo veramente uomini quando riusciamo ad ascoltare dentro di noi anche la voce della tenerezza, che è la voce per eccellenza delle donne. Penso che la tenerezza e la gentilezza siano insieme il tema fondamentale di Fuoco su di me. Tra questi due termini si pone il problema politico delle masse, dei quartieri di Napoli, senza la soluzione del quale nessun problema si risolve, in quanto è fondamentale trovare dentro di noi la radice più profonda della vita e la capacità di fare della vita un cammino verso la piena realizzazione di sé».

Eugenio ha un quaderno sul quale scrive i propri pensieri, le riflessioni su quello che vede o che vive, si allontana dalla guerra, e desidera una Napoli diversa.
«Non si può capire ciò che matura nella mente di Eugenio se lo si vede staccato dalla figura del nonno. Il film il tal senso presenta un tema più che mai attuale: il tema della continuità delle generazioni. La nostra società è destinata a perire se non riesce a saldare la continuità tra le vecchie generazioni e le nuove. Se noi vecchi non riusciamo a dialogare con i giovani non siamo altro che dei ricordi. Se i giovani non cercheranno il rapporto con noi vecchi verrà meno la progettualità per il futuro. Solo nel dialogo tra le generazioni la società può vivere, non dico sopravvivere perché c’è in questa parola già un senso di decadenza. Non si vive di rendita, ma si vive arricchendosi ogni giorno mentalmente. Anche moralmente non si vive di rendita: se non continuo a studiare io divento uno stupido, se non continuo a dialogare con i giovani io divento un pensiero arido, se non mantengo un rapporto con la realtà che sempre si rinnova io sono un cadavere che cammina… Per esser vivi bisogna scegliere di comunicare con l’altro da sé… Come ci insegna il II principio della termodinamica, un sistema chiuso in se stesso muore, degrada l’energia in esso contenuta fino a non produrre più nulla… per questo bisogna continuamanete abbeverarsi, studiare, dialogare, comunicare… Eugenio vive quella sua straordinaria esperienza perché è in rapporto di tenerezza col nonno e quel rapporto diventa vitale per entrambi».

Mi sembra questo un aspetto problematico importante: il rapporto tra i giovani e gli adulti, lo scontro che spesso avviene tra i figli e i padri. La società di oggi è segnata da questo scontro che impedisce un rapporto sereno tra le generazioni.
«Nel rapporto con il nonno c’è maggiore tenerezza. Con il padre invece c’è una specie di scontro, soprattutto quando il padre vuole dominare, magari per educare. E il figlio, come un puledro ribelle, si scontra col padre perché vuole affermare la sua indipendenza. Con il nonno questo scontro non c’è, perché il nonno non vuole educare o governare o dominare, quindi è la voce della verità che si è spogliata della potenza. Il padre invece spesso è la voce della verità che pretende di essere potente e spesso non è la verità. Il nonno invece essendosi spogliato della potenza può essere la verità e di qui nasce quel rapporto tenerissimo, presente nel film, tra nonno e nipote. Entrambi non vogliono la guerra. Il giovane Eugenio, pur essendo andato a combattere in Francia alseguito di Napoleone, quando giunge a Napoli, dopo essere stato ferito in battaglia, in questa meravigliosa oasi che è Napoli, e poi nell’isola di Procida dove incontra la fanciulla Graziella, lui ha la rivelazione della pace. Lui che è vissuto in anni di guerra, di confusione, di ferocia, di esaltazione nel nome della violenza, in cui ha creduto di conquistare la libertà con la violenza, giunto in questa specie di paradiso dove tutto è favoloso, – i pescatori, la fanciulla, l’eremita che lo guarisce -, egli scopre il sogno della pace».

Il dialogo come strada maestra quindi per l’umanità, il dialogo tra Eugenio e il nonno, il dialogo con Graziella: è questa la strada che il film indica per arrivare a sognare un mondo di pace.
«Il dialogo è bello perché arricchisce in quanto ogni uomo è portatore della propria singolarità e ognuno porta una visione diversa, il proprio punto di vista. Il senso profondo della pace sta proprio in questa capacità di dialogo, in questo capire che ognuno di noi è un punto di vista diverso ma che, proprio perché ognuno è un punto di vista diverso, il compimento dell’umanità non sta nel fare scontrare i diversi punti di vista ma nel farli dialogare, nel farli confrontare, nel farli arricchire reciprocamente. Questo mi sembra il senso più profondo del film».

C’è anche un passaggio molto interessante sulla bellezza che il pragmatico cugino Aymon, avendo una visione della vita opposta a quella di Eugenio, non comprende.
«Infatti il vecchio nonno che non sa amministrare, che non segue i suoi affari, i suoi interessi economici, perché preso dal sogno della bellezza dice quella frase: “La luna quando è sporcata dalle nuvole, è più bella…”, perché la bellezza non è la perfezione, la bellezza è drammatica, la perfezione è immobile, non è altro che una misura geometrica, invece la bellezza è viva, è la vita, e la vita è il contrasto; non il contrasto della guerra, ma il contrasto che in ognuno di noi si agita quando sentiamo di non essere appagati da quello che abbiamo pensato o sentito fino a quel momento. Il giovane Eugenio cercava altro, altro rispetto alla guerra, alla divisa, all’istituzione, al rapporto con la bellissima cantante corteggiata dal diplomatico austriaco. Cerca la verità profonda, non vuole sopprimere – perché sarebbe un suicidio – le forze che dentro di lui si contrastano, ma cerca di conciliarle. La vita va vissuta non sopprimendo le forze vitali che si agitano in noi, ma conciliandole».

Significativa mi sembra a riguardo l’immagine di Graziella che compare davanti agli occhi di Eugenio nel mentre si sta allontanando dalla fanciulla.
«L’immagine di Graziella è l’immagine della conciliazione alta. Come è giocato l’amore tra i due giovani? All’insegna della gentilezza che è il tema del film, dove in questo caso la gentilezza non è freddezza, non mancanza di sensibilità, ma è invece la sensibilità giocata nel suo senso profondo, ossia la sensualità che si realizza nel rapporto  tra uomo e donna, che è al tempo stesso tensione verso l’unificarsi e rispetto della diversità dell’altro. Questo è un punto importante: senza queste due tensioni non c’è amore, c’è sesso, c’è passione momentanea ma non amore. Amore è nella conciliazione, che non è soppressione, dei due termini, conciliazione nel rispetto di ciascuno per l’altro, espresso da quel bacio straordinario che i due si danno per l’ultima volta, che non si sa se è un incontro sognato o reale. Come dicevano i grandi drammaturgici del 600 la vita è sogno».

Ma il film offre anche sul sogno un'altra indicazione. Dice Eugenio che anche il sogno è lotta per conquistare un bene: “Il sognatore deve essere più forte del sogno”.  Ma oggi ci sono le premesse perché quel sogno di una Napoli diversa, di una società in pace possa realizzarsi?
«L’essere umano è come un pesce in ambiente acquatico. Se l’ambiente è povero il pesce rimane povero, se l’ambiente è ricco allora il pesce diventa grosso e pieno di qualità. Noi oggi possiamo dire di essere pesci abbastanza grossi perché l’ambiente in cui nuotiamo è abbastanza ricco di alimenti, di fermenti. In quell’epoca non essere soggetto collettivo non era una colpa perché risultato di una privazione, oggi non essere soggetto collettivo è una nostra responsabilità, perché ognuno di noi può muovere e stimolare questo soggetto collettivo, può unirsi agli altri. Questo è il senso vero del film».

Un film mitico che riesce a parlare all’uomo di oggi, al napoletano di oggi…
«Film mitico perché è la favola eterna del sogno, della sconfitta del sogno, dell’amore nel senso più puro, della trasmissione di ideali e valori tra le generazioni, pur se la realtà storica di allora è profondamente diversa da oggi e non ripetibile. In Fuoco su di me ci troviamo di fronte ad una scelta antitecnologica, artistica ma non artificiosa, che ci segnala che il vero progresso non sta nel lasciarsi dominare dalla tecnologia o dal mercato o nel sopprimere tecnica o mercato, ma nel tentativo di governarli».

Il finale del film lascia alquanto pensosi. In realtà quel giovane  ha rifiutato la violenza della guerra, ha trovato la sua vera dimensione, ha intuito molte cose sulla vita, ma è costretto a soccombere dinanzi alle baionette degli inglesi proprio nell’isola di Procida, lì dove ha incontrato Graziella ed è maturato il suo sogno.
«Il finale è il coronamento della bellezza del film perché è come se sottolineasse il fatto che ogni grande sogno realmente vissuto è destinato a “fallire”, ma nel suo fallimento c’è il suo trionfo. Il vecchio principe che dice al nipote che la virtù più grande è la gentilezza, sapendo che la gentilezza non trionfa: tu sarai sconfitto ma ciò nonostante la gentilezza vale più di tutto. Parliamo concretamente. Gli amici spesso mi domandano: come si fa ad educare un figlio in una realtà come la nostra in cui trionfano coloro che hanno pochi scrupoli, coloro che preferiscono la corruzione alla virtù? Se li educo ad essere virtuosi li educo ad essere sconfitti, se viceversa li educo ad essere spregiudicati insegno loro la corruzione. Io rispondo: ai figli, ai giovani – perché tutti i giovani sono miei figli, ogni generazione è figlia della precendente -,  bisogna parlare con onestà, con chiarezza come ha parlato il vecchio principe al giovane Eugenio del film. Non vi illudete che la gentilezza trionfi, però sappiate che la gentilezza ha un valore superiore a tutto. Sta a voi scegliere… Questo il senso del finale del film, quando Eugenio dice parole molto belle. Nel momeno in cui sta per essere ucciso, nel momento in cui il suo sogno è stato sconfitto, egli avverte la più grande felicità, perché ha perduto tutto, ma ha ritrovato pienamente se stesso».

Essere disposti a perdere anche la vita per realizzare il grande sogno, il grande ideale della vita,  per cercare la vera identità. Quanti sono oggi disposti ad affrontare la vita il tal modo?
«Non importa quanti. Importante è scoprire le carte e il film lo fa egregiamente… Io credo che la vita sia un gioco e una scommessa,  in cui il vero premio sia trovare o ritrovare se stessi. L’identità non ci viene da fuori, il riconoscimento non ci viene dall’esterno. Il riconoscimento ci viene dal nostro interno quando ci rendiamo conto che il sogno è stato sì sconfitto sul piano della cronaca, ma quel sogno vissuto con onestà e passione vive con noi. Mentre noi fisicamente moriamo quel sogno vive al di la della nostra stessa vita fisica… È questa straordinaria energia dell’interiorità, del pensiero, che si esprime nella scena finale del film».

Ma Lambertini aggiunge a quella scena qualcosa: Graziella tra gli alberi ha visto Eugenio correre senza più la divisa inseguito dai soldati inglesi, poi riappare sulla roccia dalla quale il giovane è scaraventato in mare, col suo volto dolce e sorridente. Quale il senso per lei di quest’ultima immagine su cui il film irrevocabilmente si chiude?
«L’apparizione di Graziella nell’ultima scena vuole dirci che solo colui che ha avuto la fortuna di riconoscere la virtù nell’eroismo morale, nell’eroismo della lotta contro i demoni, nell’eroismo della fedeltà a se stessi e non solo nelle battaglie  – Eugenio ha cercato in tutta la sua breve vita la verità e la riesce a intravedere solo alla fine quando sta per essere soppresso – può scoprire che la virtù coincide con la felicità. È il grande tema di tutti i filosofi morali: non c’è virtù senza felicità, non c’è felicità senza virtù. Credo che la scena ultima del film sia l’illustrazione stupenda di questo principio morale». 



[1]
Aldo Masullo, Napoli e un sogno condiviso, Il Mattino, Napoli 27 aprile 2007

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