La dimensione dimenticata

Città globale e postmoderno

Chi si fa carico di interpretare un’epoca come la nostra, caratterizzata da mutamenti rapidi e profondi, se è dotato di realismo, può, a ragione, esprimersi in termini di situazione di confine (Tillich), condizione di polarità (Guardini), terra di confine (Rahner) e tale coincidenza lessicale tra un teologo protestante e due cattolici è molto interessante. Altri, più astrattamente, giungono a definire l’epoca come uno stato ormai definitivo di cambiamento nel quale resta intelligibile solo un’opaca imprevedibilità (Bergquist) o, all’opposto, caratterizzano il mondo nell’eterno (Severino) incolpando la metafisica cristiana di aver indotto, nell’Occidente, l’illusione della caducità e della finitezza. In particolare, la nostra epoca si esprime nei caratteri della città globale e del postmoderno. La prima può essere ricondotta, in apparenza, alla perfezione della monade di Leibniz ma, se osservata senza riserve, palesa le debolezze di un fenomeno virtuale che offre sterili opportunità, presenta consistenti ghetti esterni e, nella sua illusione di dominare lo spazio, sottovaluta, sotto molti aspetti, la dimensione vitale del tempo anche nei suoi risvolti sociali e politici abbandonandosi a un disegno del reale quanto mai ingenuo e pericoloso. Pertanto, la città globale si esprime pienamente nel postmoderno come caratterizzato da Tillich, nel corso degli anni Sessanta: il tempo, la categoria dimenticata dal postmoderno, è correlato alla profondità come lo spazio si esprime nella velocità e nella superficie e lo smarrimento del tempo comporta anche lo smarrimento del senso. Se si ha fiducia che la storicità sulla quale l’essere dell’uomo è aperto non è uno spazio vuoto e che la parola verso la quale l’essere tende può essere udita solo nella pienezza del tempo non resta che ritrovare e far ritrovare il tempo. L’articolo offre due possibili esempi di questa riflessione: la formazione europea e la formazione alla leadership.

 

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