La crisi in Burundi non è etnica ma politica

Tensioni in Burundi

Cosa effettivamente sta avvenendo in Burundi? Per ragionare sull’oggi, occorre tornare indietro con la moviola della Storia. Com’è noto, la scorsa settimana, vi è stato un tentativo di colpo di Stato guidato dal generale Godefroid Niyombare, con l’intento di rovesciare il presidente Pierre Nkurunziza.

 

In realtà, mentre scriviamo, sebbene il golpe sia fallito, c’è ancora molta incertezza sul futuro e il rischio è che il Burundi torni ad essere lacerato da una sanguinosa conflittualità interna, come già avvenuto in passato. Va ricordato che la guerra civile burundese risale al 1993, quando venne ucciso il primo presidente democraticamente eletto, Melchior Ndadaye. Da allora sono morte oltre 350mila persone (secondo alcune fonti, addirittura 400mila). La maggioranza degli antropologi e gli storici ritiene del tutto infondate le descrizioni degli Hutu e dei Tutsi come due distinti "gruppi etnici" e di conseguenza in lotta. La loro contrapposizione costituisce un chiaro esempio degli effetti perversi del colonialismo sulla vita delle popolazioni dell’Africa contemporanea, dove la radicalizzazione delle differenze è diventata motivo di conflitto tra gruppi in precedenza capaci di condividere la stessa lingua, lo stesso territorio, le stesse istituzioni politiche e gli stessi valori.

 

Dopo anni di lunghe sofferenze, comunque, nell’agosto del 2000, un accordo fra i gruppi politici del Burundi stabilì una serie di scadenze per la ristabilimento della democrazia. Successivamente, nel 2003 venne firmato un “cessate il fuoco” fra il governo di Bujumbura, allora guidato da Pierre Buyoya (Tutzi), e il gruppo ribelle Hutu più numeroso, il “Conseil National pour la Défense de la Démocratie-Forces pour la défense de la démocratie” (Cndd-Fdd). Nello stesso anno il leader del Frodebu (partito della maggioranza Hutu), Domitien Ndayizeye, prese il posto di Buyoya come presidente del Paese. Tutto questo rientrava nei cosiddetti accordi di Arusha (Tanzania) che prevedeva la creazione di un periodo transitorio di tre anni durante il quale per i primi 18 mesi sarebbero stati al governo i Tutsi, mentre per i restanti 18 gli Hutu (maggioritaria).

 

Nel frattempo, l’ala più estremista dei ribelli Hutu, il gruppo Forces Nationales de Libération (Fnl), continuò a rifiutare qualunque forma di accordo. Nel maggio 2004, visto il proseguire dei combattimenti, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la risoluzione 1545 stabilì la costituzione della missione “United Nations Operation in Burundi” (Unob) con l’invio di forze di peacekeeping per sostenere il processo di democratizzazione disegnato negli accordi di Arusha.

 

Nel febbraio del 2005 venne approvata la nuova Costituzione seguita poi dalle agognate elezioni e nomina del nuovo presidente, il leader del Cndd-Fdd Nkurunziza, il quale si è poi rivelato inadatto al ruolo. Coinvolto in molti scandali (poi insabbiati) ha assunto gradualmente un atteggiamento dittatoriale. Sta di fatto che gli accordi di pace non sono stati propriamente rispettati visto che Nkurunziza, tra brogli elettorali e violenze sottaciute, è stato eletto per due volte consecutive. E come se non bastasse, ora punta ad un terzo mandato.

 

Il golpista generale Niyombare, godendo del sostegno di diversi ufficiali dell’esercito, della polizia e della gran parte della popolazione burundese, aveva scritto lo scorso dicembre al capo dello Stato, chiedendogli di rinunciare al terzo mandato, destabilizzante e incostituzionale, ma che soprattutto avrebbe potuto innescare un conflitto nazionale. Niyombare era stato capo di stato maggiore dell’esercito fino al dicembre dello scorso anno, quando assunse il ruolo di capo del Servizi segreti (Snr). A febbraio era stato poi destituito dall’attuale presidente. Pare, infatti, che egli avesse scoperto documenti estremamente compromettenti su alcune esecuzioni contro i civili e su degli scandali finanziari di fondi pubblici oggetto di appropriazione indebita.

La pace è, comunque, a rischio ancora una volta per l’interesse di pochi. Non si tratta di una lotta etnica anche se qualcuno – nella fattispecie Nkurunziza – sta gettando benzina sul fuoco. A questo punto, non v’è dubbio, che un ruolo importante ricade sulla Chiesa cattolica e in generale sulla società civile. Pare ormai certo che l’omicidio delle tre missionarie saveriane, avvenuto nel settembre del 2014, abbia avuto una connotazione politica. La palese opera di depistaggio delle inchieste relative all’omicidio delle religiose avrebbe innescato una battaglia politica tra Nkurunziza, appartenente alla setta cristiana dei “rinati” e la Chiesa cattolica, quest’ultima determinata a contribuire ad un radicale cambiamento del regime, in favore della democrazia.

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