La casa sul mare

È un cinema umano, quello del regista francese Guediguian, in cui il tempo emotivo cambia facilmente, è un cinema da scoprire, da recuperare, da godere

Se si digitano i vocaboli cinema e Marsiglia, la prima parola, anzi il primo nome che salta fuori su Google è sicuramente quello di Robert Guèdiguian: regista francese di origini armene (il padre) e tedesche (la madre). Classe 1953, è stato autore, finora, di tanti bei film, ed è una specie di fotografo di Marsiglia, visto che in questa splendida città sono ambientati quasi tutti i suoi film. Ama catturare la sua luce, i suoi vicoli, le sue facce – quelle di sempre e quelle recenti, provenienti da tanti posti del mondo – i suoi cortili con i panni stesi, il mare e i problemi, le miserie e gli splendori. Il cinema di Guédiguian è una fonderia di pubblico e privato, di sentimenti e politica, perché i suoi personaggi sono sempre vitali e corposi, ma vivono a stretto e forzato contatto con l’ambiente esterno: non sono per niente immuni dalle sue contraddizioni, dai suoi limiti e dalle sue ingiustizie. Anche se comprendono bene che la vita non è solo politica, ma qualcosa di più complesso, per fortuna e ahinoi.

Nel cinema di Guédiguian balla la vita mentre respira il presente. È un cinema, il suo, convinto che dentro le mura domestiche possa abitare la bellezza, ma è anche un cinema che scende continuamente per strada, per quelle vie che porteranno pure in casa qualche guaio, ma che se non ci fossero, la casa stessa sarebbe una prigione assurda, quando il mondo, invece, quando vivere è prima di tutto, e nonostante tutto, relazione. I suoi personaggi, interpretati quasi sempre dagli stessi attori – tra cui la moglie del regista, Arianne Ascaride –  sono tutt’altro che eroi: cadono, soffrono, riflettono, ma sanno anche sorridere, alleggerire, sono pieni di dignità e si sentono un po’ orfani di una coscienza di classe collettiva che era prima di tutto unione, solidarietà, rete, direzione, etica.

Anche l’ultimo film del regista, La casa sul mare – in concorso a Venezia 2017 e uscito in sala il 12 aprile scorso – come in molti altri suoi lavori compreso il precedente Le nevi del Kilimangiaro (2011), Guèdiguian mette al centro di tutto una famiglia: tre fratelli – due uomini e una donna – ormai adulti e separati dalla vita, ognuno con la propria strada percorsa, fatta di gloria e di dolore. Quando l’anziano padre si ammala gravemente nella vecchia casa di famiglia affacciata su un borgo marinaro a pochi chilometri dalla città, tutti rientrano all’antico porto in cui sono cresciuti (la casa del titolo, appunto) e iniziano, grattando le antiche ruggini e disinfettando le ferite mai chiuse, a ripartire ognuno a modo suo, perché la vita, quando la vedi da fuori ti sembra una cosa, e quando chi la vive te la racconta senza omettere le verità scomode e indicibili, è faticosa e tosta per tutti. Parallelamente al privato, però, ecco il presente che piomba e interagisce con le minuscole esistenze e i loro guai:  una nave di migranti è naufragata da quelle parti e i tre adulti trovano tre fratellini del disperato gruppo e decidono di proteggerli dalle severi leggi dello Stato. È un crescendo di energia, uno stimolo per prendere coraggiose decisioni, per riorganizzare la propria vita, anche se è diversa da come era stata progettata, anche se il finale sta per diventare un altro, non quello immaginato. Angèle, attrice di grande successo, affronterà una volta per tutte il suo grande e dolorosissimo lutto, Joseph, intellettuale rivoluzionario e colto, scrittore da anni in crisi creativa,  accetterà la fine della storia con una ragazza più giovane di lui, e Armand, che scelse di non partire ed ha gestito un ristorante nel vecchio borgo, sarà lì a fargli da fratello, con umana semplicità. È un cinema umano, quello di Guediguian, in cui il tempo emotivo cambia facilmente, è un cinema da scoprire, da recuperare, da godere. Al cinema, in questi giorni, passa l’occasione.

 

 

 

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