La bomba di Istanbul e quelle sui curdi

Dopo l’attentato non rivendicato del 13 novembre a Istanbul, si è scatenata una violenta reazione turca contro il Pkk e i curdi: l’operazine claw sword, un attacco aereo e con droni su 89 siti curdi in Siria e Iraq. Con prospettive di ulteriori azioni militari e senza troppe proteste internazionali.
Istanbul
Un uomo davanti a una macchina distrutta dal raid aereo turco del 19-20 novembre (AP Photo/Baderkhan Ahmad)

Istiklal Caddesi, a Beyoglu, antico quartiere genovese, veneziano, greco, ecc. di Istanbul, è un posto famoso nel mondo, una strada elegante, un percorso pedonale di 1,5 Km dove si affacciano boutique, gallerie d’arte, teatri, ristoranti e pasticcerie. Si dice che nei weekend ci passino 3 milioni di persone al giorno.

Quando la bomba è esplosa a Istiklal Caddesi nel pomeriggio di domenica 13 novembre, già non c’erano dubbi che fosse colpa dei curdi.

Chi conosce le cose turche sapeva che la colpa dell’attentato poteva essere attribuita solo al “famigerato” Pkk. Non perchè ci fossero delle prove o una rivendicazione, semplicemente perché qualsiasi attentato in questa Turchia è per definizione colpa di terroristi curdi. Comunque.

Una bomba al tritolo: sono morte 6 persone e 81 sono rimaste ferite, tutti cittadini turchi. E sono morte una madre e sua figlia, un padre e sua figlia, una coppia.

Dopo poche ore, esaminando 1.200 telecamere di sorveglianza, è stata effettuata una retata, arrestate una quarantina di persone, e soprattutto l’attentatrice reoconfessa: si chiama Ahlam Albashir, è siriana e sarebbe legata a detta degli inquirenti al Pkk/Ypg, addestrata a Kobane.

Un percorso molto rapido e lineare. Compresa la reazione, che non ha sorpreso nessuno: un raid aereo micidiale dell’aviazione turca, il 19-20 novembre, su 89 aree curde in Siria e in Iraq, con 50 aerei e 20 droni. Un raid “chirurgico”, secondo le autorità turche, contro bunker, depositi di munizioni e campi di addestramento dei terroristi curdi. Nome dell’operazione come al solito fantasioso (così come quelli delle 4 precedenti): claw sword (spada ad artiglio).

Secondo fonti indipendenti i morti sarebbero stati una trentina. L’agenzia russa Tass annuncia quasi gongolando che sarebbero invece stati 138. In base a quali riscontri non è dato sapere.

A seguire l’annuncio turco che non finirà però così, che è solo l’inizio: chissà come mai nessuno è rimasto sorpreso anche di questa affermazione. Anche chi ha (debolmente) protestato a livello internazionale.

Il presidente turco ha annunciato che sono in corso consultazioni fra militari e istituzioni turche per decidere se e quando avviare un attacco terrestre. Forse più sul quando che sul se. Senza chiedere il permesso né a Mosca né a Washington, dato che si tratta di un’“evidente” applicazione, sempre secondo Ankara, dell’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni unite sull’autodifesa. Applicazione quanto meno discutibile.

Quello che altri rilevano è che l’operazione “chirurgica” claw sword avrebbe colpito anche alcuni ospedali, fra cui quello di Kobane, oltre a granai, infrastrutture civili, scuole e addirittura una postazione dell’esercito siriano, a Sewarxa, con 10 soldati morti e 5 feriti. Si tratterebbe di quelli che vengono indicati con il nome di danni collaterali. Di diverso (ma non sorprendente) avviso è un comunicato del Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk), pubblicato anche su retekurdistan.it del 22 novembre:

“L’attacco terroristico a Taksim, a Istanbul, del 13 novembre è stato pianificato ed eseguito dal regime turco Akp-Mhp al potere per fornire un pretesto per questi bombardamenti mortali. Senza alcuna indagine il regime turco ha incolpato di questo attacco le Unità di protezione del popolo (Ypg), le Unità di protezione delle donne (Ypj) e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Nonostante l’immediato e veemente rifiuto di questa accusa infondata da parte delle Forze democratiche siriane (Sdf, l’organizzazione generale che comprende le Ypg e le Ypj) e del Pkk…”.

Cosa ci sia in ballo al di là di tutta questa retorica non è troppo difficile ipotizzarlo. Molti think tank internazionali prospettano elenchi di cause e con-cause, certamente opinabili ma spesso non del tutto campate in aria. Un aspetto fra altri è, guarda caso, di tipo elettorale: si avvicinano le elezioni turche, presidenziali e legislative, e non si può arrivare al voto con il problema irrisolto dei rifugiati siriani (4 milioni) presenti da anni in Turchia, ormai divenuti insopportabili a molti cittadini (leggi anche elettori) e considerati un problema economico e di sicurezza.

L’obiettivo sarebbe quindi, e non da ieri, quello di costituire una safe zone profonda 30 Km in Siria, lungo il confine, allo scopo di controllare i curdi (che sono maggioranza in quei territori), tutti o quasi secondo Ankara indipendentisti e terroristi, e magari di installare nella safe zone i 4 milioni di scomodi rifugiati siriani non curdi.

Ma per attuare un’operazione di questa portata ci vuole l’ok di Russia e Usa, entrambe contrarie: la Russia per i rapporti di protettorato che ha da tempo instaurato nei confronti del regime siriano, gli Usa per il patronato ondivago ma strategico che ha verso i curdi in funzione anti-Isis, e non solo. In questo ambito entra anche il discorso della possibile adesione di Svezia e Finlandia alla Nato (vista come fumo negli occhi da Mosca).

Ankara, in quanto membro della Nato, ha com’è noto ampie riserve sulla politica di accoglienza dei fuoriusciti curdi da parte dei due Paesi scandinavi. Ma nel caso che Stoccolma e Helsinki accettasero le condizioni turche sui profughi curdi (estradizione in Turchia), Ankara è disposta ad accettare le domande di ingresso nella Nato. Per Erdogan e il suo partito questa mediazione, unita a quella tra Russia e Ucraina, sarebbe un punto in più nella definizione di un ruolo forte della Turchia a livello internazionale. Che rafforzerebbe sul piano interno l’immagine e il prestigio della coalizione di governo che fa capo a Erdogan. Tanto più che le elezioni si terranno a giugno 2023, fra poco.

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