La bellezza inconsapevole del Belice

Si può crescere felici anche tra le baracche “eterne”? Gli errori della ricostruzione e il problema dell’amianto

Quando vennero per smantellare la nostra baracca capii che un pezzo di vita se ne andava definitivamente. Anche se non ci vivevamo più da un pezzo, l’avevamo donata ad un’altra famiglia senza casa che ci era vissuta per molti altri anni. Il paese ormai guardava altrove, ma quel gruppo di baracche rimaneva lì, ed ogni tanto ci tornavo per rintracciare tra i cespugli i sentieri e i luoghi della nostra infanzia e dei nostri giochi.

Dopo ci fu una cesura netta. Le baracche del Belice, nate come alloggi provvisori, si perpetuarono per oltre tre decenni. Ma fu un alloggio democratico, uguale per i poveri e per i ricchi, senza nessuna distinzione di censo. E la loro organizzazione raccolta in cortili aiutava molto l’aggregazione sociale e la condivisione della vita quotidiana.

Tutto era in baracca: l’ospedale, il municipio, la scuola, gli uffici pubblici, anche la farmacia del nonno in cui fu sistemato a fatica il mobile antico che vi entrava appena. Gli innamorati che convolavano a nozze subentravano in baracche lasciate libere da altre famiglie, alcuni la baracca se la portavano in campagna, le scorgevi ovunque, trasformate, ridipinte e fortificate negli anni dall’ingegno e dall’arte di arrangiarsi dei nostri artigiani. In baracca era anche l’associazione culturale che fondammo nel ’90, che chiamammo appunto “Barak’esh” a significare “esci dalla baracca”.

Per la mia generazione la lunga parentesi della baraccopoli fu una stagione felicissima, tra l’infanzia e l’adolescenza: in quella baracca angusta non ci si poteva vivere in 9, quanti eravamo noi, e così bambini e ragazzi facevamo vita fuori, a contatto con la natura, si socializzava immediatamente, si formavano comitive enormi e ci si divertiva inventando giochi, gite ed avventure.

Le amicizie di allora, bambini cresciuti in fretta e ben presto emigrati in cerca di lavoro, hanno conservato una tempra speciale. Son trascorsi 50 anni da allora. Quali consapevolezze ci consegna oggi questo anniversario? Lo Stato si trovò impreparato a fronteggiare il primo terremoto del dopoguerra, la prima legge che consentiva la ricostruzione arrivò con un decennio di stand-by.

Poi se ne dimenticò presto (nel Belice non c’era nessun tessuto industriale da rimettere in piedi), e negli anni reagì con crescente malcelato fastidio alle richieste di stanziamenti per la ricostruzione. Non fu attuato nessun decentramento amministrativo e finanziario, ma una burocrazia regionale monolitica ed ottusa alimentò il rapporto di sudditanza della popolazione nei confronti del potere.

Le classi dirigenti locali, in molti casi culturalmente inadeguate, si trovarono a gestire quella congiuntura storica senza avere mezzi economici e capacità di visione politica. Molta della bellezza inconsapevole dei nostri paesi è stata cancellata dalla ricostruzione, non dal terremoto. Il Belice avrebbe potuto essere ricostruito privilegiando la memoria, col criterio del massimo del recupero e del minimo di demolizioni, cogliendo l’occasione storica per innestare elementi di modernità: auditorium, piste ciclabili, infrastrutture sportive ed aggregative, teatri. Ma non è avvenuto nulla di tutto questo.

Le somme che furono stanziate con enormi ritardi dallo Stato per il Belice si ripartirono tra molti Comuni che non avevano nulla a che fare con l’evento sismico del ‘68, paesi che utilizzarono quelle provvidenze per altre finalità con la complicità delle varie Commissioni bicamerali ad hoc che considerarono quei comuni serbatoi elettorali.

E poi l’ingiustizia dell’amianto: le baracche ne erano piene e le popolazioni del Belice furono per decenni esposte a quel veleno senza che lo Stato impartisse mai istruzioni al riguardo. Al Ministero dell’Ambiente ne presero atto solo visionando le video registrazioni che noi del Barak’esh realizzammo sull’emergenza ambientale determinatasi nel Belice. Inviarono immediatamente dei funzionari e fu redatto un dossier amianto che – altra ingiustizia – non ci fu mai consegnato, nonostante le nostre pressanti richieste.

Di quella bellezza inconsapevole del Belice rimangono poche testimonianze, quasi tutte legate alla trasmissione orale. Come quel contadino che, ricordando la stagione delle grandi mobilitazioni e degli scioperi negli anni ’70 e ’80 nel Belice, raccontava che al termine delle manifestazioni presero l’abitudine di tornare in baracca per i campi, con inconfessato disincanto, raccogliendo asparagi selvatici, che da queste parti sono buonissimi. A testimonianza del fatto che valeva comunque la pena mobilitarsi.

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