La base Muos. Una questione di sovranità e dignità

Intervista con il generale Fabio Mini a proposito delle basi militari Usa in Italia e del sistema di osservazione che verrà impiantato in Sicilia. Dietro al progetto anche i rapporti con la potenza cinese e un'analisi dell'industria degli armamenti
MUOS

L’installazione a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, del M.U.O.S. (Mobile User Objective System) è destinata a creare notizia, secondo le leggi prevalenti dell’informazione, solo con la cronaca delle proteste della popolazione. Da tutta la Sicilia movimenti di diversa estrazione e gente comune si danno  appuntamento nel bosco del parco naturale della sughereta del niscemese per manifestare contro la messa in funzione delle potenti antenne del sistema di telecomunicazioni satellitare della marina militare statunitense.  Nonostante la guerra di carte bollate del sindaco Francesco La Rosa davanti alla magistratura amministrativa, la questione sembra chiusa in maniera definitiva con lo studio dell’Istituto superiore di sanità che minimizza i pericoli della salute di un impianto già in funzione dal 1991. «Continueremo a vigilare» è stata la conclusione del governo all’interpellanza di una deputata siciliana, Venerina Padua, che, da medico pediatra, ha sollevato obiezioni confermate da altri esperti accademici.

Non stiamo tuttavia, come ha affermato il generale Fabio Mini in un recente dibattito, davanti ad una questione che si fa gestire ad un messo comunale. Non sarà la notifica di un’ingiunzione municipale a intimorire il comando dell’esercito della superpotenza Usa che governa le sue numerose basi in Italia in conformità ad un trattato siglato nel 1953 che nessuno ha mai messo in dubbio o aggiornato.

Andiamo alle radici della sovranità sul territorio italiano che il caso Muos evidenzia, grazie all’intervista che ci ha concesso lo stesso generale Mini che, come è noto, ha un notevole curriculum perché ha comandato tutti i livelli di unità da combattimento e ha prestato lunghi periodi di servizio negli Stati Uniti, in Cina, nei Balcani e nella Nato. È stato capo di stato maggiore del comando alleato del sud Europa e comandante della forza internazionale di sicurezza in Kosovo. Ora è consigliere scientifico di alcuni centri di ricerca sulla sicurezza e collabora con le riviste e i quotidiani del gruppo «l'Espresso», tra cui il periodico di geopolitica “Limes”. Autore di testi importanti e approfonditi che rivelano una notevole libertà di analisi come  La guerra dopo la guerra (2003), Soldati (2008), Mediterraneo in guerra (2012), La guerra spiegata a… (2013) e Perché siamo così ipocriti sulla guerra (2013). Significativo il fatto che abbia curato la pubblicazione di un testo nel 2005 “Guerra senza limiti” scritto da strateghi militari cinesi che citano non solo Machiavelli ma anche un altro italiano poco conosciuto fuori dall’ambito militare, il teorico del “dominio dell’aria” Giulio Douhet.

È concepibile realisticamente un‘alternativa alle condizioni definite nei trattati del 1953 sulle basi militari statunitensi in Italia ?

«L’alternativa esiste ed è auspicabile perché al mondo non saremo mai pari se non chiediamo il rispetto della nostra dignità. Altrimenti non solo siamo considerati dei servi, ma giudicati anche male come tali. Come Paese, considerando la nostra tradizione e cultura, non siamo secondi a nessuno e ricevere questo trattamento da chi si propone come alleato e pretende lealtà e amicizia è quasi offensivo. L’alternativa è di natura politica e, in questo senso, esiste quando le regole dettate dagli altri non vengono accettate supinamente, ma almeno dopo aver formulato delle domande.  Per molti anni ho lavorato nell’ambito della Nato e con gli stessi americani. Devo dire che essi riconoscono i diritti di dignità e di sovranità quando conoscono e stimano le persone con cui hanno a che fare, altrimenti non fanno neanche finta di porsi il problema. Se tali istanze di elementare amor proprio non emergono nel rapporto, la questione non si pone».

E quali sono le domande da porre?

«Ad esempio, sul perché del posizionamento delle basi o delle antenne. Quali esigenze di sicurezza, non solo Usa ma anche italiane, giustificano tali scelte strategiche. Nessuno in Italia, né al livello politico e, meno che mai, a quello tecnico-militare, ha mai posto una questione così semplice. A questo punto sembra davvero inimmaginabile tornare indietro sul posizionamento delle antenne Muos. Dovremmo spiegare cosa è cambiato negli ultimi 5 anni rispetto al posizionamento della base di tele-comunicazioni presente sullo stesso territorio da oltre 50 anni. La natura del servizio svolto dalle precedenti strutture era di equivalente portata strategica, in relazione ai tempi e alla situazione. E così come non abbiamo fatto domande sulle conseguenze delle esposizioni alle onde elettromagnetiche sulla popolazione o sul rischio che il nostro Paese correva nell’ospitare strutture che riguardavano soltanto gli Stati Uniti. Allo stesso modo, non abbiamo fatto domande sui rischi derivanti dalle nuove strutture del Muos».

Ma non potremmo dire, in generale come lei dimostra nel testo “Mediterraneo in guerra”, che la stessa politica delle basi non si giustifica nel nuovo contesto geopolitico?

«Senza il crollo del blocco ex sovietico la situazione si sarebbe perpetuata secondo una certa logica della deterrenza destinata a perpetuarsi all’infinito (o meglio all’indefinito) ma con gli eventi del 1989 – 90 sono cambiati tutti i parametri della politica estera, militare, di sicurezza e di difesa. Abbiamo, per un certo verso, minori certezze perché non c’è più una guerra (anche se fredda) apertamente dichiarata tra blocchi contrapposti. Tuttavia, non esiste una manifestazione di ostilità tale da giustificare una posizione ideologica. Come ho messo in evidenza nel dibattito sulla base di Vicenza, oggi non ha senso il mantenimento di un tale avamposto quando gli avamposti si sono ormai spostati ad Est con il consenso dei nuovi governi. Gli Stati uniti hanno portato avanti la politica delle basi con i Paesi che hanno perso la guerra, esercitando perciò quella supremazia sugli sconfitti che si manifesta da sempre, fin dal tempo delle guerre del Peloponneso, in maniera non solo e non tanto punitiva quanto pragmatica e fisiologica». (continua)

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