Kibera e Mathari sulla coscienza

Slum Kibera in Kenya

Ieri pomeriggio ho avuto l'occasione di recarmi a conoscere alcuni amici che operano nel campo della solidarietà in due delle maggiori baraccopoli al mondo, quelle Kibera e Mathari che sono ormai universalmente conosciute. Pensate un po' il cinismo: degli operatori locali sono riusciti aorganizzare dei tour turistici per occidentali in queste due piaghe dell'umanità…

A Kibera basta lasciare la via centrale asfaltata per entrare nell'incubo: vie strette un metro, nel fango, con le fogne a cielo aperto, mentre una attaccata all'altra si allungano le baracche di lamiera, freddissime d'inverno e caldissime d'estate. Si vedono durante il giorno sostanzialmente donne e bambini, perché gli uomini – sembra che il 40 per cento dei nuclei familiari non abbia un padre – se ci sono, sono altrove.

Sono entrato in una delle baracche, due metri per tre, ci vivono in cinque… La disoccupazione è all'80 abbondante per cento, l'incidenza di malattie quale Aids ed epatiti ha dimensioni devastanti, anche se non esattamente quantificabili, probabilmente oltre il 30 per cento. Ovunque ristagna un odore acido di fogna… Potrei continuare per ore e ore a descrivere l'abominio di Kibera e, meno drammaticamente, di Mathari. Anche se non mancano spunti di speranza: tanti giovani che la mattina vanno a lavorare fuori dallo slum, una certa coesione sociale, la determinazione delle madri di mandare i figli a scuola…

Ora, nella sola Kibera operano 2 mila, dico 2 mila Organizzazioni non governative, in massima parte a capitale straniero. Anche il governo ha aperto una lunga catena di iniziative,compresa quella, qualche anno fa, di cercare di sostituire le baracche con delle casette in muratura. Fallimento. Possibile che 2 mila Ong non siano riuscite a cambiare Kibera? C'è qualcosa che non va. Sembra che vi sia un demone che impedisce agli abitanti di liberarsi dal loro fardello: questioni economiche (dove vado?), di abitudine (sono capace di vivere altrove?), di affetti (chi mi ripagherà dalla loro perdita?), di dipendenza (in fondo le Ong ci danno qualcosa per vivere…).

Al Congresso internazionale di Economia di Comunione, che si sta tenendo qui a Nairobi con la partecipazione di più di 300 delegati, di cui un terzo proveniente dai continenti extrafricani, non si parla direttamente delle bidonville, ma dei fondamenti sui quali ci si potrebbe appoggiareper uscire da situazioni instostenibili e che gridano giustizia quali Kibera e Mathari, così come degli innumerevoli slum delle grandi città africane.

Viene così affermato che non bisogna tanto portare qui le istituzioni economiche occidentali pensando che automaticamente possano portare benefici a tutti e risolvere come con una bacchetta magica la questione della miseria nel continente: in effetti le istituzioni locali, le intuizioni del convivere civile di queste parti, la cultura endogena hanno già le sue istituzioni che, magari rafforzate e sostenute, potrebbero diventare la base di una nuova economia più giusta e adatta alle dimensioni della vita africana. 

In particolare emerge prepotentemente un'idea, che direi una certezza: si può, sì, fare impresa da soli, partire dall'intuizione di un singolo, anche di un genio, ma si può fare impresa anche assieme. Lo ha imparato l'Occidente con le cooperative e le società per azioni, ma qui in Africa "insieme" non è un avverbio di secondo piano, è l'avverbio stesso che meglio definisce il "fare" nella società. Un "fare" che è nel contempo un "essere", perché io sono in quanto essere sociale, persona che vive di relazioni. L'Africa può essere il centro di questo "fare impresa insieme", un insegnamento per il mondo intero. Per non avere più Kibera e Mathari sulla coscienza.

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