Islam e Occidente

La contrapposizione tra Islam e Occidente domina la scena politica mondiale, ritorna spesso nelle piazze mediatiche così come nelle parole della gente comune. Ma è corretta? Risponde Pasquale Ferrara nel suo ultimo saggio Religioni e relazioni internazionali, edito da Città Nuova (2014).
Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico. Di Pasquale Ferrara (CN

Nel lessico politico internazionalistico si usano con legge­rezza formule oppositive generiche e dozzinali, come ad esem­pio la contrapposizione tra l’Occidente e l’Islam.

Da una parte, si evoca l’Occidente, che, in senso stretto, è una denominazione geografica, come un insieme di idee, ca­ratteri culturali, soluzioni istituzionali e strutture economiche considerate in modo unitario, come distintive e peculiari.

Dall’altra parte, si usa la denominazione di “Islam”, che è un termine con una forte connotazione religiosa e cultura­le, come una definizione geopolitica di un’importante area del mondo.

Si tratta di un caso in cui la terminologia è cruciale. Non solo si allineano due definizioni che in linea di principio non sono comparabili, ma implicitamente si presuppone anche che ciascuno dei due termini implichi una porzione del mon­do unitaria e omologa.

Nella mia esperienza professionale come diplomatico ita­liano, ho trascorso quattro meravigliosi e interessantissimi an­ni presso l’Ambasciata d’Italia a Washington, tra il 2002 e il 2006. L’impressione che ho ricavato da tale passaggio ame­ricano è che l’idea di un Occidente monolitico è semplicisti­ca.

Ben più autorevolmente, questa tesi è stata sostenuta da Jürgen Habermas. Ci sono, in effetti, profonde differenze tra la cultura europea e quella americana. Per menzionarne solo alcune, si può citare lo scetticismo e la diffidenza di buona parte dell’opinione pubblica americana nei confronti del big government, vale a dire l’intervento dei pubblici poteri nella vita economica e nell’organizzazione spontanea della società.

Agli occhi di molti americani lo Stato sociale, considerato con orgoglio nel Vecchio continente come essenziale nella de­finizione di un modello europeo (benché in crisi e con molte ammaccature), è una manifestazione di un socialismo latente che soffoca la libera iniziativa. Un altro punto dirimente è la pena di morte, che è stata bandita in Europa e che invece con­tinua a essere in vigore in molti Stati negli USA. Pertanto, lo stesso Occidente, nelle sue diverse articolazioni, risulta essere un mondo molto plurale e variegato.

Le stesse considerazioni si applicano all’Islam. Sappia­mo molto bene che le declinazioni dell’Islam sono molto dif­ferenziate, e che importanti distinzioni vanno fatte quando si considerano i vari Paesi a maggioranza islamica e la loro storia politica e religiosa. Appare, dunque, del tutto improprio collo­care nella stessa categoria, dal punto di vista del rapporto tra il sistema politico e la fede islamica, Paesi come l’Egitto e l’Iran, l’Arabia Saudita e la Turchia, il Pakistan e l’Albania. Per tacere dei molti Paesi occidentali in cui si registra una presenza im­portante e talvolta storicamente radicata di musulmani, come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, gli stessi Stati Uniti.

Un’altra fonte di confusione consiste nella sovrapposizio­ne semantica che talvolta si riscontra nella pubblicistica e nel linguaggio comune tra mondo islamico e mondo arabo.

A questo riguardo, vorrei citare un’importante e preveg­gente relazione che il Parlamento Europeo approvò nel 2007 sulle «Riforme nel mondo arabo: quale strategia per l’Unione europea?». Nella relazione troviamo molte importanti e at­tualissime considerazioni. In primo luogo, il riconoscimento del «concetto di identità araba inteso come fattore unificante appare una caratteristica comune, e rivendicata come tale, dei popoli e degli Stati di una vasta zona geografica che si esten­de dal Maghreb al Golfo Persico passando per il Mashrek e il Vicino Oriente».

Al tempo stesso, c’è la coscienza di un’iden­tità araba plurale, che si articola «in diverse realtà sia politi­che (monarchie, repubbliche arabe, anche in seno allo Stato di Israele e all’Autorità palestinese) che religiose (musulma­ni sunniti, compresi i wahabiti, alawiti, drusi e sciiti, cristiani di confessioni diverse) e sociologiche (grandi città, zone ru­rali, montagne, popoli nomadi), pur comportando parametri transnazionali comuni». È un buon esempio, questo, di quan­to sia necessario essere molto più accurati quando si usano definizioni generalizzanti, che rischiano di avere una denota­zione troppo ampia e una connotazione troppo scarsa.

Prima e quanto meno in parallelo alla guerra al terrore, do­vremmo combattere una molto più impegnativa guerra all’erro­re. O, per dirlo in termini diversi, dovremmo evitare il linguaggio collaterale nelle nostre narrazioni politiche, allo stesso modo in cui si dovrebbero ridurre i danni collaterali nelle azioni militari. Talvolta, infatti, il linguaggio plasma anche la percezione.

Edward W. Said nel 2001 scrisse un articolo intitolato Lo scontro dell’ignoranza stigmatizzando l’uso di etichette inde­finite come Islam e Occidente, poiché esse sono fuorvianti e «confondono la mente che tenta di dare un senso a una realtà disordinata. Passioni primordiali e un sofisticato know-how convergono per creare un confine fortificato non solo tra l’Oc­cidente e l’Islam, ma anche tra passato e presente, noi e loro, per non parlare degli stessi concetti di identità e nazionalità sui quali non c’è accordo e rispetto ai quali il dibattito è infi­nito. Tale attitudine dimostra quanto sia molto più semplice pronunciare dichiarazioni bellicose allo scopo di mobilitare passioni collettive piuttosto che riflettere, esaminare, com­prendere quello di cui davvero stiamo trattando, e cioè l’inter­connessione di innumerevoli esistenze, le “nostre” e le “loro”».

Cercando di prendere una qualche distanza prospettica dalle tensioni del presente, «è molto meglio – scrive Said – pensare in termini di comunità potenti e comunità impotenti, di poli­tica laica della ragione e dell’ignoranza, di principi universali di giustizia e ingiustizia, che andare in cerca di grandi astrazio­ni che possono offrire qualche momentanea soddisfazione ma ben poca conoscenza di sé o un’analisi informata».

Sono convinto che le differenze che Samuel Huntington tenta di fissare nel concetto di “scontro delle civiltà” siano di natura geopolitica più che di carattere religioso o cultura­le. Credo, anzi, che l’identificazione di confini tra le culture sia un’impresa impossibile.

[…]

Non è inoltre possibile usare la geografia come un criterio oggettivo di identificazione. Tutte le rappresentazioni carto­grafiche sono concettuali; non esiste un mondo oggettivamen­te diviso in Paesi sulla base di precisi confini: si tratta di una costruzione mentale. La geografia è ben lungi dall’essere una scienza della natura, è una scienza sociale. Ad esempio, se­condo Martin W. Lewis e Karen E. Wigen, persino il concetto di “continente” è soggetto a libera interpretazione. In effetti, le distinzioni geografiche rappresentano altrettanti esercizi di “meta-geografia”. Ciò è particolarmente vero proprio in re­lazione all’artificiale dicotomia Occidente/Islam.

L’idea di Occidente è stata declinata, storicamente, in ver­sioni geografiche molto diverse. La porzione di terre emerse della superficie terrestre denotata come Occidente varia in modo radicale nelle concezioni politiche e persino filosofiche. Da un lato estremo dello spettro semantico, l’Occidente inclu­deva la sola Inghilterra della Rivoluzione industriale.

Un’al­tra rappresentazione mediana ruotava attorno a un Occidente “minimo”, costituito essenzialmente dalla Gran Bretagna, dal­la Francia, dai Paesi Bassi e dalla Svizzera; vi è poi l’Occidente “storico” della cristianità medievale (intorno al 1250); l’Occi­dente “atlantico” della Guerra fredda; l’Occidente “globale” della modernizzazione. Ad esempio, nella prospettiva di Ar­nold Toynbee, l’intero globo si troverebbe sotto l’egemonia occidentale in un modo o nell’altro.

Si tratta, come si vede, di un confine mobile, il che è una contraddizione strutturale e logica. Altri approcci combinano identità e geografia. È un in­dubbio merito epistemologico di Huntington l’aver reintro­dotto nel dibattito internazionalistico il concetto di civiltà; il problema è che esso viene formulato in termini prevalente­mente di scontro e non di connessione. Una nozione di civiltà così congegnata è dunque essenzialmente strategica, e alimen­ta, in definitiva, la falsa percezione di uno stato d’assedio (spe­cie dell’Occidente).

Un punto importante da sottolineare è che c’è un lega­me evidente tra l’identità europea e la civiltà islamica (come tra l’Europa e l’eredità giudaico-cristiana). Per diversi secoli, il mondo arabo-islamico è stato infatti politicamente presente in Europa e nel Mediterraneo, e non solo in termini di conflitto e di contrapposizione. C’è, pertanto, la necessità di un’evolu­zione da un approccio negativo, che ha storicamente plasma­to l’immagine dell’Islam come nemico, al riconoscimento di un’influenza reciproca. In oltre 1.500 anni ci sono state diverse fasi di divisione culturale e religiosa tra il continente europeo e la regione mediterranea. Ogni fase ha comportato una diversa definizione dell’identità dell’altro.

Da Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico di Pasquale Ferrara (Città Nuova, 2014)

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