Iraq, Bergoglio da un popolo martire

La prima sortita fuori dall’Italia del papa da più di un anno in qua, è stata dedicata a una nazione da trent’anni e passa senza pace
Bergoglio a Mosul, Iraq AP Photo/Andrew Medichini

Al solito, il papa sorprende con le destinazioni dei suoi viaggi. Il primo spostamento è stato tutto interno al Vaticano, allorché ha spostato la sua residenza dal Palazzo apostolico alla Casa Santa Marta, mettendo così in qualche modo fine al modello del papa-re. Ha voluto tra l’altro conservare, dettaglio non secondario, il suo passaporto argentino. Il primo passo fuori dal Vaticano, a Roma, è stata la visita al suo ottico in via del Babuino, e non ad esempio il Quirinale.

Il primo viaggio in Italia ha avuto come destinazione Lampedusa e i suoi migranti, mentre il primo viaggio europeo lo ha portato in Albania, non a Parigi o Berlino. Fuori Europa, si è recato poco dopo la sua elezione alla GMG del Brasile, e non nella sua Argentina. Ed ora il primo viaggio post-Covid ha avuto come destinazione l’Iraq, un periplo voluto risolutamente dal pontefice contro tutti gli inviti alla prudenza venutigli da ogni dove, anche dalle autorità sanitarie. Un papa quantomeno attento a sovvertire un buon numero di tradizioni.

Avrebbe potuto scegliere il martoriato Libano ancora per un terzo cristiano, per questo viaggio in Medio Oriente, o forse avrebbe addirittura preferito l’impraticabile Siria, che comunque ha una presenza cristiana sull’8 per cento della popolazione. Ha invece scelto l’Iraq, innanzitutto per avviare relazioni possibili con il mondo sciita, rappresentato dall’ayatollah al-Sistani, dopo il grande evento di Abu Dhabi, dove invece aveva riannodato i rapporti col mondo sunnita rappresentato dal grande sceicco di al-Azhar, al-Tayyeb. Ma la scelta dell’Iraq ha avuto anche e soprattutto lo scopo di abbracciare un popolo-martire come quello iracheno.

Martiri sono i suoi cristiani, ridotti a un terzo scarso di quanti non fossero prima dell’inizio della guerra del 2003, quella di George W. Bush: ricordo una telefonata, alla vigilia dell’attacco Usa, con l’allora vescovo caldeo di Baghdad, Salomone Warduni, che nel ricevitore mi aveva gridato che un tale attacco avrebbe rischiato di far scomparire i cristiani dal suo Paese.

La visita del papa a Qaraqosh, la più popolosa città cristiana della Valle di Ninive, distrutta dalla barbarie del Daesh ha avuto la carica simbolica di un abbraccio. Nel novembre 2017 mi ero recato nel villaggio abbandonato da una settimana dal Daesh – si udivano i bombardamenti nella vicina Mosul dove ancora infuriavano i combattimenti − e avevo visitato anche la Cattedrale dell’Immacolata Concezione dove il papa si è fermato in preghiera. Sull’altare profanato avevo preso la foto di due miliziani cristiani (riportata in quest’articolo) che accendevano candele in segno di riparazione.

Uno di loro mi aveva detto piangendo: «Qui rinasce la cristianità in Iraq, qui la pace e la fraternità troveranno di nuovo casa». Il papa ha simbolicamente riportato la serenità ai cristiani, che si sono sentiti da lui presi sul serio: «Nessuno dei grandi di questo mondo è venuto fino a noi, nessuno ha avuto il coraggio di papa Francesco di sfidare gli attentati per portarci conforto», mi dice oggi un medico cristiano della vicina Erbil, capitale del Kurdistan iracheno.

Martiri sono stati per decenni i suoi sciiti, maggioranza del Paese, schiacciati dal regime di Saddam Hussein e poi dallo stesso Daesh, analogamente ai cristiani e agli Yazidi, a tante altre minoranze non sunnite. Il papa è andato a Najaf, a casa di al-Sistani, leader di questa minoranza, non perfettamente allineato con le autorità iraniane, un uomo che malgrado l’estrema conflittualità del Paese da vent’anni in qua è riuscito ad avere parole di pace e riconciliazione, evitando bagni di sangue ancora maggiori di quelli che hanno avuto luogo. «Grazie al papa che non ha voluto dimenticarci in questo periodo di grande conflittualità», mi dice un giovane immigrato sciita iracheno in Italia, Ali si chiama, studente a Firenze.

Ma martiri paradossalmente lo sono stati anche la stragrande maggioranza dei suoi sunniti, che dopo la cacciata e l’assassinio di Saddam sono stati a loro volta vittime di rappresaglie, vendette, manipolazioni. Un milione di soldati del regime cacciato si erano ritrovati senza uno stipendio; un’esigua minoranza erano finiti nelle sgrinfie di al-Baghdadi, mentre la maggior parte di loro aveva fatto la fame, e spesso la fanno ancora.

Il papa è andato in Iraq anche per abbracciare questa parte del popolo, meno presente nelle cronache, ma certamente felice di vedere l’uomo in bianco venire sulle rive del Tigri e dell’Eufrate. «Lode al papa argentino, che ha dipinto di luce la nostra speranza di pace», ha commentato un collega sunnita iracheno.

Questo papa ama farsi vicino ai popoli martiri.

 

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