Inginocchiarsi al museo? Si può

La Pinacoteca di Brera si rinnova: il Cristo morto di Mantegna e la Pietà di Bellini visti da Ermanno Olmi. Il regista ha curato il nuovo allestimento dei due capolavori rendendone maggiormente il dramma.
Andrea Mantegna

Prima, nella Pinacoteca di Brera, il lungo corridoio vedeva i quadri dei pittori veneti appesi l’uno accanto all’altro e chiudere con i ritratti del Lotto, inquietanti, e di Tiziano, rassicuranti.

Ora, non è più così. Ermanno Olmi – e chi altro se non lui ? – ha cambiato tutto. Il corridoio è diventato una galleria dal soffitto arcuato che accompagna ancora dei quadri alla parete: il mondo dei vivi. Alla conclusione ci attende la Pietà di Giovanni Bellini, rimessa a nuovo nel pallore immacolato di carni illividite, di affetti tenerissimi e struggenti come il colloquio a labbra sussurrate della Madre col Figlio cereo, mentre Giovanni ci guarda e si lamenta. Bellini unifica sentimenti umani e com-passione divina nell’armonia di un dolore mestissimo, fermo e controllato, dove nulla è fuori misura, oltre il biancore del parapetto, né i cieli né le nubi.

È la morte, il doloroso momento dell’addio, venato di mestizia e della luce chiara della speranza.

Dietro la tavola belliniana, la scena cambia. Ora siamo dentro al sepolcro nel nero di un pannello alto e scuro. Nella parte bassa di questo, Olmi ha collocato il Cristo morto di Andrea Mantegna, libero, senza cornice. Un brivido corre lungo la schiena dell’osservatore, siamo dentro la camera mortuaria dove il Cristo morto è stato deposto. Eccolo, depositato sulla lastra di marmo rosata, coperto a metà da un lenzuolo dalle pieghe metalliche e rialzate che ne fanno intravedere il corpo, mani e piedi bucati con insistenza fiamminga dai chiodi ora tolti, la testa grande, la barba rada, il volto rugoso per gli spasimi, e una grandissima pace. Accanto, la Madre vecchissima scoppia in singhiozzi come Giovanni e il volto di un ignoto o di una ignota. Tre piangenti di fronte alla morte dell’Amato. Il quale è qui di fronte a noi e dobbiamo abbassarci, perché è poco poco più in alto da terra, come ci si piega davanti a una bara.

Soluzione criticata da molti e invece intelligente, commovente. Giusta, perché reale. Mantegna ha dipinto la tela per sé stesso, la sua sepoltura, in un tempo in cui era straziato dalla morte di due figli.

Ora chiede a noi di condividere il suo dolore e nel Cristo il dolore di ogni uomo e di sempre.

La piccola tela col “Cristo in scorcio”, come veniva citata dalle fonti, nei toni bassi e lievi di un bianco-rosa-marrone e nelle luci pellegrinanti fra corpi e tessuti, è un requiem doloroso – il “corrotto”, ossia il pianto dirotto dei lamenti medievali – e una invocazione alla pace in quel corpo straziato, ma che pare ancora palpitante.

Olmi invita a meditare sul trapasso e il poi, in questo tempo di rimozione del terrore, e della fine. Lo fa isolandoci nel buio di un sepolcro e spingendo se non il corpo, almeno l’anima ad inginocchiarsi di fronte al mistero, come Mantegna dinnanzi al Cristo in rosa e cenere sulla lastra di marmo.

Una lezione di come un capolavoro venga compreso, valorizzato e soprattutto fatto ritornare alla sua funzione originaria, quella della riflessione e della contemplazione. Un’occasione imperdibile per la folla che visita in questi giorni Brera.

 

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