India e Pakistan smorzano la tensione

L’appello a favore della ragione di 600 fra scienziati, uomini di cultura e giornalisti

La pericolosa escalation con l’ombra nucleare fra India e Pakistan si è dissolta quasi come neve al sole o, meglio, come una bolla di sapone. Dopo un paio di giorni ad altissima tensione e con retorica bellicosa e nazionalista da entrambe le parti, la mossa a sorpresa del Primo Ministro Pakistano, Imran Khan, eroe nazionale di cricket, che ha promesso la liberazione del pilota indiano in mano all’esercito d’oltreconfine, ha spiazzato l’India. La reale liberazione realizzatasi in tempi brevissimi ha colto quasi tutti di sorpresa e ha rimesso a posto gli instabili equilibri della zona.

Comunque, nelle ultime ore si erano già attenuati i toni da entrambe le parti e gli stessi portavoce dell’esercito di New Delhi non hanno più osato parlare, in termini trionfalistici, del numero di presunte vittime nel loro blitz aereo contro il campo di addestramento di terroristi al di là del confine. In India, nonostante la retorica di Modi che dall’angolo opposto del Paese, l’estremo sud, a Kanyakumari, aveva gridato identificando l’India con la sua persona ed il suo governo, non sono stati pochi quelli che hanno obiettato alla scelta di giocare una carta pericolosa come quella rischiata da Modi.

A parte alcuni leader religiosi – come il card. Oswald Gracias di Mumbai – anche altre persone, cittadini comuni per esempio, hanno twittato il loro disaccordo sulla mossa politica del governo di giocare una carta così rischiosa. Molti di questi messaggi sono apparsi sui social media ed hanno rifiutato di identificarsi con Modi, il suo governo ed i rischi che ha fatto correre al Paese. Altri hanno scritto documenti ufficiali firmati da gruppi consistenti. Fra questi interessante la lettera firmata da circa 600 fra scienziati, uomini di cultura e giornalisti.

La lettera è stata intitolata significativamente Appello a favore della ragione ed ha voluto manifestare una coscienza per la pace in grado di opporsi in modo significativo alla paranoia collettiva che, in questi casi, si impossessa dell’opinione pubblica di questi due Paesi. I 600 firmatari hanno esordito condividendo la preoccupazione per la situazione creatasi a causa di un clima di intolleranza e non hanno avuto dubbi nel condannare sia l’atto terroristico che qualche settimana fa aveva ucciso una quarantina di militari indiani a Pulwama che l’appoggio e copertura assicurati dal governo pakistano ai gruppi armati di terroristi. Il documento riconosce che la risposta dell’India – con una incursione aerea che ha distrutto un campo di terroristi a Balkot – è andata al di là della legge internazionale e sembra non aver tenuto conto dei rischi ai quali ha esposto una intera nazione.

Il monito contro il pericolo di guerre scatenate con superficialità e senza una chiara coscienza delle conseguenze è espresso con termini chiari e con riferimenti storici che richiamano come il primo conflitto mondiale del secolo scorso fosse stato scatenato da un solo assassinio. Gli accademici, giornalisti e scienziati hanno messo in chiaro come anche un confronto breve e limitato nel tempo e nello spazio scatenato dal contenzioso sul Kashmir può dar vita ad un conflitto che è difficile prevedere quanto possa durare. Ulteriore appello è stato lanciato ai governanti e militari dei due Paesi asiatici affinché si rendano conto che sono i civili a soffrire per le conseguenze di queste situazioni e delle potenziali degenerazioni. Non si nasconde poi che il danno nazionale maggiore è quello di trovarsi a fare i conti con una progressiva crisi democratica interna che comprende anche una progressiva limitazione della libertà di espressione e di dissenso.

Dopo aver ricordato la triste e dolorosa situazione degli abitanti del Kashmir, i firmatari hanno insistito che anche la ragione interpella i contendenti a trovare una soluzione pacifica alla crisi che si è aperta fra i due Paesi. Si spera che segni di questo tipo aiutino i politici a ravvedersi su scelte avventate e a trattenersi dal trascinare l’opinione pubblica con una retorica nazionalista rischiosa sotto tutti i punti di vista, che poco ha a che vedere con il bene comune.

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