In estate ospito un ragazzo “sbarcato”

L'associazione Famiglie Nuove in Sicilia e il cantiere Immigrazione del Movimento dei focolari lanciano un'azione per rispondere all'emergenza sbarchi e alla solitudine di chi sfuggito alla guerra e alla morte cerca una nuova vita
Libia Migranti La Presse

Alim non ha ancora 18 anni ma nella sua vita ha vissuto esperienze incredibili. In Somalia andava a scuola. Aveva 15 anni quando i soldati ribelli hanno fatto irruzione in classe per sequestrare tutti i ragazzi. Con la testa incappucciata, ammassati in un camion, dopo qualche ora si trovano in una zona isolata e deserta. Comincia un lungo addestramento militare: li preparano a morire da martiri in un attentato kamikaze che li porterà alla felicità eterna. Ma Alim non si lascia affatto convincere: fa finta di essere pronto e deciso, ma vuole solo scappare.

Quando si avvicina il giorno in cui deve entrare in un ristorante con uno zainetto – bomba, approfitta di una giornata di “simulazione” in città e chiede di potere salutare la mamma e le sorelle che, da due anni, non hanno notizie di lui. Permesso accordato: bastano poche parole e la mamma escogita il trucco che lo salverà. Manda le due figlie a comprare qualcosa, ma sotto il burka c’è Alim che così trova la salvezza. Quando i soldati vanno a cercarlo, la madre li convince che Alim lì non c’è mai stato. Poi il viaggio della speranza, la traversata del mare sino alla Sicilia e finalmente un posto tranquillo, senza militari armati per strada. Ma di notte gli incubi sono sempre in agguato e solo dopo mesi e mesi in Italia comincia a trovare un po’ di pace e di serenità.

Hassan ha 17 anni e viene dall’Africa sub sahariana. Il suo Paese è in guerra. Per fortuna adesso si trova in una casa-famiglia in un paese lontano dal mare. Il mare. Appena lo vede infatti ritorna la paura di quel terribile viaggio di tre interminabili giorni tra la Libia e l’Italia e comincia a tremare senza sosta. «Eravamo moltissimi su quella barca. Ad un certo punto dal fondo è iniziata ad entrare l’acqua e ce la siamo ritrovata sino alle ginocchia. Non avevamo carburante, nessuno sapeva dove eravamo né dove stavamo andando. Non c’erano né acqua né cibo per tutti, io ho anche bevuto l’acqua del mare perché avevo troppa sete. Una persona accanto a me è morta durante questo viaggio. Poi sono arrivati gli italiani e ora sono salvo».

Progetti? Imparare l’italiano, e poi lavorare e mandare un po’ di soldi all’anziana madre che è povera ed è sola. E’ stata lei a spingerlo a partire – ed è il suo unico figlio – per dargli la possibilità di una vita migliore di quella che ha vissuto lei. Soprattutto lontana da attentati, bombe e milizie armate per strada. Ma anche tutto il suo villaggio lo sostiene: in Africa la vita è sempre molto comunitaria. Dice Hassan: “Riesco a telefonare una volta a settimana, ma mi costa molto! Il telefono infatti è da un’altra persona che corre a chiamare mia madre. Così tutti sanno che io sono lì al telefono e alla fine devo parlare con molte persone: ciascuno mi vuole sentire per sapere come sto e per incoraggiarmi e sostenermi in questa scelta. Sono ancora molto stanco e molto confuso ma voglio farcela a tutti i costi per la mia gente”.

La domanda che ci facciamo – da spettatori muti dinanzi a queste tragedie – è ovvia: Cosa posso fare?

L’esperienza delle comunità cittadine che si trovano, anche controvoglia, a fare i conti con i numerosissimi sbarchi, ci fornisce elementi importanti da esaminare. Accanto alle istituzioni che svolgono un ruolo fondamentale – prima di tutto quello di salvare la vita – si vedono la generosità, la disponibilità e l’impegno di molte famiglie: mamme, papà e figli anche piccolini che vanno nei centri di accoglienza per portare un dolce, per insegnare qualche frase di italiano, per improvvisare una festosa partita di calcio, per accompagnare dal medico.

E poi gli inviti a casa, soprattutto la domenica, per rendere meno pesante la solitudine dei giorni di festa. Così scopro che l’Italia più povera e trascurata (come la mia, in Sicilia) non si tira indietro anche se ha molto poco da condividere: qui tutti sanno che intorno ad un tavolo non c’è molta differenza se si deve dividere il pane tra sei persone invece che cinque.

Poi le esperienze maturano ed emergono esigenze diverse: per i ragazzi che da qualche mese hanno avuto la fortuna di un posto nelle case-famiglia, si sta promuovendo un’iniziativa per il periodo estivo: un breve soggiorno nelle famiglie italiane per fare nuove amicizie, conoscere nuovi posti e creare legami che in futuro potrebbero diventare un importante riferimento di crescita e di integrazione. L’iniziativa, promossa a Catania, coinvolge l’Associazione Famiglie Nuove della Sicilia e la rete immigrazione del Progetto Italia.

Se dinanzi alle quotidiane notizie degli sbarchi qualcuno si chiede: Cosa posso fare? Forse una risposta è la disponibilità ad accogliere in famiglia per alcuni giorni negli imminenti mesi estivi un giovane ragazzo “sbarcato”. La mia pagina facebook è disponibile per i contatti.

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