Impresa sociale?

Riportiamo l'intervista di Radio vaticana al nostro editorialista Luigino Bruni. Coniugare libertà, imprenditoria e persona senza trascurare leggi, sindacato e lavoratori

"L’impresa sociale è una delle grandi innovazioni degli ultimi vent’anni in Italia perché nasce da un’intuizione secondo me fondamentale e cioè che l’impresa è veramente sociale quando include chi è fuori". Così ha esordito Luigino Bruni, docente di economia all’università Bicocca di Milano e nostro editorialista nell’intervista a Radio vaticana durante il programma ONE-O-FIVE LIVE. Riportiamo l’intero intervento.

 

L’imprenditorialità sociale, ricordata nella Caritas in veritate di Benedetto XVI,  può essere un modello per uscire dalla crisi economica?

 

L’impresa sociale è capace di far diventare delle realtà marginali o escluse, dei protagonisti, per un mutuo vantaggio. In fondo l’impresa sociale, quando nasce agli inizi degli anni ’90, fa questo: soggetti esclusi dal sistema produttivo, con dei disagi o con delle forme di handicap, sono  inclusi e questa inclusione porta sviluppo. Oggi il termine ‘impresa sociale’ è inteso in senso più ampio. Non è usato solo per descrivere una cooperativa sociale, ma qualsiasi impresa che è veramente costruttiva del bene comune perché mette la persona al centro. Ora la persona, com’è ben noto, non è l’individuo. L’individuo è sé in sé stesso. Ed è quindi un termine che sottolinea l’individualità rispetto alla comunità La persona è invece sé stessa solo in rapporto con gli altri. Perciò quando noi parliamo di persona ‘al centro’, diciamo subito quale deve essere la dimensione dei rapporti. L’essere umano fiorisce quando è inserito all’interno di rapporti significativi, anche mentre lavora, quando produce e quando consuma. Quindi, quando l’impresa riconosce questa dimensione relazionale, personalista, dell’impresa stessa e dell’economia, mette la persona al centro. Infatti il principio personalista è alla base dell’art. 41 della Costituzione che riconosce all’impresa una funzione sociale e che afferma quindi che l’impresa è sé stessa quando tratta i soggetti come persone e non soltanto come individui.

 

Qual è la sua opinione sulla possibile riforma di quest’articolo della Costituzione auspicata da più parti?

 

Le riforme sono normalmente degli eventi positivi, perché significa che il paese discute, dibatte, va avanti. Ora io credo che quell’articolo è nato da un periodo di grande convergenza su alcuni elementi fondamentali della tradizione occidentale cristiana e umanista. E cioè un incrocio tra la tradizione più socialista e liberale e quella cattolica. Quindi, per toccare l’art. 41, ci vorrebbe grande attenzione. E’ infatti un articolo che mette insieme il fatto che la libera iniziativa è importante e va riconosciuta, con l’idea che all’impresa va riconosciuta una funzione sociale. Lì si sta parlando dei pilastri della cultura occidentale. L’articolo mette insieme le due grandi tematiche che sono state distinte nella modernità: la libertà dell’individuo con la comunità. Quell’articolo è un gioiello di capacità di mediazione e se vogliamo toccarlo e riformarlo dobbiamo salvare questa grande intuizione che l’impresa è veramente libera quando tratta i soggetti come persone e non come individui. E quindi l’iniziativa imprenditoriale contribuisce al bene comune quando pone al centro i rapporti interpersonali, i rapporti istituzionali. Quando riconosce il sindacato con la sua funzione fondamentale di mediazione e quindi interpreta la libertà non solo come libertà “da”, ma come libertà “per” e come libertà “con”. E queste sono le grandi parole dell’Enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI.  Quindi ben vengano riforme, purché non si vada indietro ma si vada avanti.

 

Qual è il suo parere sulla vertenza di Pomigliano d’Arco e sul ruolo del sindacato in questa vicenda?

 

Io credo che il sindacato oggi debba porsi in un atteggiamento anch’esso innovativo. Salvando tutta la grande eredità dell’ultimo secolo e oltre, deve pensare che l’economia globalizzata è veramente un’altra cosa. Quindi io credo che in questo momento a Pomigliano si stia confrontano una visione del sindacato, che non dico che sia sbagliata,  ma che è più ancorata a una visione di classe – su cui è stata costruita tanta democrazia e che ha portato contributi di civiltà – con un’idea di sindacato che dialoga di più con l’impresa e cerca d’interpretare questi passaggi epocali. Ovviamente il rischio di lasciare per strada dei pezzi di sindacato importante, che ha costruito tanto, c’è. E io mi auguro che anche la Fiom , e questa parte del sindacalismo più tradizionalmente legata a una certa visione della classe operaia, possa dialogare e portare il suo contributo. Perché credo che c’è anche oggi una parola che viene da questa parte più tradizionale del sindacato che – in un dialogo più ricco – più profondo – tra le varie anime del sindacato e  l’impresa – possa portare a una sintesi nuova. 

 

C’è un modello d’impresa per il futuro che possa coniugare le esigenze del territorio e la globalizzazione?

 

Non c’è una ricetta semplice. Noi abbiamo una grande eredità come Italia. L’Italia è il luogo dove sono nate le imprese. Abbiamo una tradizione che affonda nell’Umanesimo civile – e prima ancora nel Medioevo – dove l’impresa è stata sempre vista in un rapporto vitale con il territorio. Non è un caso che il ‘Made in Italy’, i ‘distretti industriali’, sono un prodotto tipico dell’Italia. Sono concetti in cui l’impresa non è vista come ‘business is business’, cioè l’economico separato dal civile, dallo spirituale, dalla comunità. Ma l’impresa nasce promiscua, nasce intrecciata con la vita civile e culturale. Questo è il modello italiano, il ‘Made in Italy’ vero. Dove l’imprenditore è un pezzo di città, non è un ambito separato e distinto. Noi siamo convinti, e da anni stiamo lavorando su questo, che questa antica tradizione, che ha avuto anche delle malattie, ben note, nel ‘900 – dal corporativismo fascista alla gestione familista delle imprese –  possa offrire oggi, in un’età globalizzata, un’idea di impresa che sappia coniugare le grandi esigenze della globalizzazione, con le radici, il territorio, la città. Ecco perché per noi l’economia civile è una delle parole chiave. Bisogna coniugare economia e città. Siamo convinti che tornando indietro, ma non in modo nostalgico,  conservatore, a una tradizione cristiana e umanista, cattolica e laica insieme, possiamo oggi immaginare un’idea d’impresa e di imprenditore, capace di gestire le complessità contemporanee e di andare oltre la crisi.

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