Immigrazione tra hotspot, accoglienza diffusa e cinema

In Friuli Venezia Giulia il tema ritorna d'attualità dopo che il primo cittadino di Trieste ha proposto la creazione di un hotspot a Palmanova, città che invece rivendica un modello di accoglienza diffusa. Mentre un documentario sul tema dei respingimenti verso i Balcani promette di far ulteriormente discutere
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Nella foto: Area di confine in Provincia di Trieste, la marcia lungo sentieri del Carso di un gruppo di clandestini provenienti dalla rotta balcanica. Foto Mauro Scrobogna /LaPresse.

Torna a tenere banco in Friuli Venezia Giulia – e con risvolti politici, come sempre in questi casi – il tema dell’immigrazione. O meglio: del modello da utilizzare per “gestire” i migranti in arrivo dalla rotta balcanica. Il casus belli è stato il vertice sulla sicurezza tenutosi a Trieste con il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi; durante il quale è emersa la richiesta di una nuova struttura da utilizzare come hotspot per l’identificazione e un’ospitalità di breve durata. Ad essere interessata dagli arrivi è principalmente, per forza di cose, la zona a ridosso del confine – Gorizia e Trieste in particolare; e proprio il sindaco del capoluogo regionale, Roberto Dipiazza, già noto per esternazioni piuttosto colorite sul tema, ha invitato – così come altri colleghi delle zone confinarie – ad individuare tale luogo non in città e dintorni ma «nella Bassa friulana, in particolare a Palmanova, lì dove vivevano migliaia di militari, e non avremo difficoltà a trovare un paio di posti adatti ad assistere, per pochi giorni, persone che altrimenti girano per le città col coltello e spacciano».

Facilmente comprensibili le reazioni contrariate dei palmarini, ma per capirle bisogna fare un passo indietro. Innanzitutto guardando al passato di Palmanova stessa: la “città stellata”, patrimonio Unesco per i suoi bastioni dalla caratteristica forma e per il reticolo urbano che la riproduce, ha infatti ospitato fino a fine ‘900 migliaia di militari nelle numerose caserme cittadine. In seguito alla sospensione del servizio di leva e al ridimensionamento dell’esercito, queste strutture si sono trasformate in “cattedrali nel deserto”, in massima parte inutilizzate; mentre le città si è svuotata non solo di molti abitanti, ma anche di tutto l’indotto che l’esercito stimolava. Di lì la ricerca di un modo per rilanciare quello che è a tutti gli effetti un gioiello urbanistico e architettonico, questa volta in chiave turistica; con l’avvio a partire dagli anni 2000 di notevoli interventi di riqualificazione, fino all’ottenimento del riconoscimento Unesco.

Intanto, naturalmente, i migranti arrivavano; e arrivavano anche a Palmanova, dove si è optato per un modello di accoglienza diffusa. Ai tempi di Matteo Salvini al ministero dell’Interno, tuttavia, gran parte del territorio si è distinta per notevole solerzia nel mettere in atto lo smantellamento di questo sistema a favore dei grandi hub; peraltro in maniera piuttosto controversa, dato che molte associazioni hanno denunciato il letterale prelevamento improvviso anche di famiglie con minori dagli appartamenti in cui risiedevano, per essere portati in centri sovraffollati privi di condizioni igieniche e sanitarie adeguate; l’interruzione almeno temporanea degli studi per chi andava a scuola o frequentava corsi professionali; e scarsa chiarezza nell’assegnazione degli appalti di gestione dei centri. Una scelta che ha ovviamente assunto una coloritura politica, con l’opposizione di centrosinistra a contrastarla.

E qui arriviamo appunto a Palmanova. Che, come hanno ricordato sia l’attuale sindaco Giuseppe Tellini che il suo vice e predecessore Francesco Martines, aveva implementato con successo il modello di accoglienza diffusa insieme ad altri comuni del circondario; avviando anche i migranti a lavori socialmente utili, corsi di lingua e di formazione professionale. Un modello che Palmanova si sarebbe vista forzatamente smantellare; e ora, di conseguenza, non accetta l’ipotesi di riadattare una caserma dismessa per farne un hotspot che ha i potenziali per essere, oltre a un danno d’immagine per la città, una bomba sociale – come già dimostrato da casi analoghi, quali il Cara di Gradisca d’Isonzo. «Palmanova non è disponibile ad accogliere il centro hotspot regionale per la gestione dell’immigrazione – ha dichiarato il sindaco, come riferito dal Messaggero Veneto, puntando il dito anche contro le implicazioni politiche della questione –. Il governo regionale di centrodestra non pensi di scaricare su un comune non allineato (Palmanova è amministrata dal centrosinistra) la propria incapacità di gestire il fenomeno migratorio. Abbiamo fatto la nostra parte per quattro anni con i progetti di accoglienza diffusa perché riteniamo ancora che questo sia il sistema più adeguato per fare integrazione. Cinque anni fa hanno chiuso i progetti Sprar e di accoglienza diffusa volendo aprire 5 Centri per i rimpatri, senza realizzarne alcuno».

E proprio i rimpatri sono un altro tema caldo. L’assessore regionale alla Sicurezza, Pierpaolo Roberti – anch’egli noto per posizioni molto dure sul tema –, ha assicurato che gli immigrati rimarranno molto poco sul territorio regionale, appunto perché verranno respinti. La cosa, tuttavia, non è così lineare: e a ricordarlo è proprio il questi giorni il documentario di Andrea Segre, Matteo Calore e Stefano Collizzoli Trieste è bella di notte, in presentazione il 22 gennaio al Trieste Film Festival. L’opera raccoglie le testimonianze di migranti giunti a Trieste e respinti in Bosnia, senza nemmeno essere identificati; procedura condannata come illegale dal Tribunale di Roma a gennaio 2021, ma riattivata da Piantedosi al suo arrivo al Viminale. Un film, dunque, che promette di sollevare un tema caldo proprio al momento giusto.

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