Il suicidio di Brittany Maynard: una scelta che fa discutere

Il dibattito sull’eutanasia apre alla necessità di un confronto rispettoso ed esigente sul senso della esistenza e la fragilità della condizione umana
Brittany Maynard

La morte, si sa, fa parte della vita e ogni persona, prima o poi, deve fare i conti con questa consapevolezza. Nonostante un certo vitalismo che vorrebbe nascondere il dolore e la morte, coprendoli sotto la nube dell’edonismo, del culto del corpo e di un salutismo esasperato, ognuno di noi sa, nel profondo del suo animo, che la morte è un aspetto della vita e che realisticamente va considerata in tutte le sue implicazioni.

Questo approccio ben si associa ad un’ottica di fede, per la quale la morte spalanca alla realtà più vera della vita eterna, ma non deve indurre a scantonare nel versante opposto per cui l’uomo, sentendosi il padrone della vita, si erga anche a padrone della morte.

Anche per questo la scelta di Brittany Maynard lascia con l’amaro in bocca. La giovane ventinovenne di San Francisco, infatti, dopo averlo annunciato dal suo blog e in un’intervista per il settimanale People, sabato scorso ha deciso di bere un cocktail letale, per morire prima che il cancro al cervello, diagnosticatole pochi mesi fa, non la debilitasse fino a renderla totalmente dipendente dagli altri e quindi incapace di prendere decisioni autonome.

Aiutata dall’associazione Compassion & Choices (attiva negli Stati Uniti per la diffusione della legalizzazione dell’eutanasia in tutti gli stati), Brittany ha acquistato i farmaci in Oregon dove il suicidio assistito è legale da 17 anni, poi ha cercato di riempire le sue ultime giornate facendo le cose che aveva sempre desiderato fare come visitare il Grand Canyon. Il 1° novembre poi, alla presenza dei suoi cari, ha posto fine alla sua vita.

Nove milioni e mezzo di persone hanno visto su Youtube il video in cui Brittany spiega le sue ragioni trasformando questa drammatica decisione in un evento mediatico che ha attirato l’attenzione di stampa e televisione e che ha scatenato un acceso dibattito. Tra le prese di posizione controcorrente, ci sono state anche le dichiarazioni di altri pazienti con patologie allo stadio terminale che, invece, hanno raccontato della propria scelta di vivere la malattia fino alla fine, affidandosi alle cure palliative per il controllo del dolore.

L’argomento è drammatico e pensare ad una giovane donna che nel pieno della sua esistenza scopra all’improvviso che la sua vita è ormai in fase terminale, genera sgomento e disorienta chiunque, togliendo certezze.

Per poter affrontare una simile prova, infatti, sono necessarie alcune condizioni: qualcuno che non ti lasci solo e sia capace di condividere con te tutte le sofferenze future, la certezza di un’assistenza sanitaria all’altezza della situazione, che garantisca “cure palliative” efficaci per il controllo del dolore. La condizione più importante, però, credo che sia un orizzonte di senso nel quale anche il dolore, il limite e la morte siano percepiti come espressione di vita che non tolgono dignità alla persona, ma completano il suo percorso terreno.

E qui mi vengono alla mente due persone che hanno vissuto esperienze di questo genere: la prima è certamente Chiara Luce Badano (che gli attenti lettori di Città Nuova conoscono bene), che alla diagnosi di tumore osseo aveva 17 anni ed è subito stata lucidamente consapevole di quello che di lì a poco avrebbe vissuto. I mesi di vita che la separavano dalla morte sono stati una potente testimonianza di forza nella debolezza, un inno alla vita per chiunque la avvicinasse. Al suo capezzale tante persone hanno drasticamente cambiato la propria esistenza.

L’altro è il papà di una mia amica al quale più di venti anni fa hanno diagnosticato un tumore simile a quello di Brittany: la malattia, certo, è stata drammatica, ma durante il decorso egli ha continuato a vivere e non è voluto mancare al matrimonio della figlia accompagnandola all’altare pur se in sedia a rotelle. A causa di questa esperienza la ragazza ha deciso di studiare medicina ed oggi è dirigente medico in ospedale. Due storie diverse, due storie di dolore e di morte che parlano di condivisione e di vita.

Non credo che il dolore tolga dignità all’uomo, sono le condizioni nelle quali una persona è accudita che fanno la differenza: è indispensabile assicurare a tutti la possibilità di accesso alle cure palliative e, soprattutto, la compagnia di coloro che li amano.

È vero anche che probabilmente Brittany aveva tutte e due queste condizioni, ma non ce l’ha fatta a pensarsi fragile ed indifesa contro l’avanzare di una malattia devastante. E qui certo è in gioco il senso stesso della vita, la vita personale di ciascuno di noi; il suo mistero e la sua inafferrabilità.

È difficile parlare in queste situazioni, del tutto inappropriato poi salire in cattedra, emettendo sentenze; credo però che si possa dire che ha senso vivere la vita, sempre. E ogni volta che un uomo o una donna hanno il coraggio di vivere fino in fondo il dolore che la vita riserva loro, ad un certo punto si apre uno spiraglio, come una ferita che si trasforma in feritoia e da essa penetra un barlume di senso che lenisce il dolore e, più in fondo ancora, la paura ultima di sentirsi soli. 

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