Il senso della vita

Quale atteggiamento avere nei confronti della vita? Che senso dare al male e alla morte? In Diventa ciò che sei, il potere curativo delle parole, di prossima pubblicazione per i tipi di Città Nuova, Ionata ci aiuta da trovare una risposta  
diventa ciò che sei - libro
Quando pensiamo alla morte, quasi sempre la contrappo­niamo alla vita, mentre invece la morte andrebbe contrapposta alla nascita: in fondo, la vita è ben altro, comprende sia la nasci­ta che la morte, nel senso che entrambe le appartengono.
In una storiella medievale un nobile cortigiano inglese si rivolge al suo re, dicendogli:

La vita degli uomini sulla terra, o sire, confrontata con la vastità del tempo a noi sconosciuto, mi sembra essere si­mile a questo: come se, mentre sedete alla vostra mensa in presenza di capitani e ministri durante l’inverno… uno dei passeri, da fuori, volando attraversasse rapidamente la sa­la, come se fosse entrato da una porta e, immediatamente, fosse uscito da un’altra. In quegli istanti che trascorre nella sala, il passero non è toccato dalla tempesta, ma il breve attimo di pausa subito finisce e com’è arrivato dall’inverno, presto all’inverno ritorna e sfugge alla vostra vista. La vita degli uomini sembra essere più o meno così, e ciò che la precede, o che la segue, lo ignoriamo totalmente.

La vita, dunque, è un breve episodio tra due grandi misteri, che poi sono uno soltanto: è come quel passero che viene dall’oscurità e torna verso la stessa oscurità.
Queste due oscurità sono la nascita e la morte che dal pun­to di vista metaforico possiamo considerare come dei “tuffi”: la nascita è un “tuffo nell’aldiquà”, mentre la morte è un “tuffo nell’aldilà”.
L’immagine della vita come una luce immersa nell’oscurità mi riporta alla mente la descrizione di un sogno personale fatta dal grande psicoanalista Carl Jung.

Ho fatto un sogno che mi ha al tempo stesso spaventa­to e incoraggiato. Stava calando la notte e mi trovavo in un posto sconosciuto. Avanzavo a fatica contro un vento molto forte. Una nebbia densa ricopriva tutto. Nelle mani a coppa tenevo una luce fioca che minac­ciava di spegnersi da un momento all’altro. La mia vita dipendeva da quella luce fioca che proteggevo gelosa­mente. Improvvisamente ebbi l’impressione che qual­cosa avanzasse dietro di me. Mi voltai e vidi la forma gigantesca di un essere che mi seguiva. Ma, in quello stesso istante, mi resi conto che, nonostante il terrore, dovevo proteggere la mia luce attraverso le tenebre e contro il vento. Al risveglio mi accorsi che la forma mostruosa era la mia ombra formata dalla fiammella che tenevo accesa nel mezzo della tormenta. Sapevo anche che quella fragile luce era la mia coscienza, l’uni­ca luce che possedevo. Confrontata alla potenza delle tenebre era una luce, la mia unica luce.

A tutti, durante la vita, accadono quotidianamente cose bel­le e cose brutte. Tutti noi possiamo constatare che nella vita esi­stono contemporaneamente il bene e il male: certamente la vita è bella, ma spesso è infarcita di tragedie, e il mondo è quello che è.

Prima o poi, dunque, tutti ci poniamo la domanda sulla necessità o sull’utilità della presenza del male nella vita, e non sempre la risposta viene o non è poi così soddisfacente: istinti­vamente il male viene rifiutato.

Eppure, per il nostro equilibrio psichico il male non an­drebbe rifiutato a priori, anzi sarebbe utile confrontarsi con es­so ogni tanto, almeno questa era l’idea di Carl Jung: può acca­dere che avendo a che fare col male si corra il rischio di esserne soggiogati. Secondo lo psicoanalista svizzero, perché ciò non accada non è sufficiente la semplice considerazione che il bene ha la forza di un imperativo categorico e che il cosiddetto male può essere evitato: il riconoscimento della realtà del male rela­tivizza sia il bene che il male, tramutandoli nelle due parti di un contrasto, i cui termini formano un tutto paradossale.

Perciò, continua Jung, chi desidera avere una risposta psicologica al problema del male così come si presenta nel mondo, ha biso­gno, per prima cosa, di conoscere senza reticenze se stesso, la propria totalità, quanto bene può fare, e anche di quale infamia è capace, guardandosi dal considerare reale il primo e illusoria la seconda

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