Il sapore perduto della “cuntentizza”

Albanesi d’Italia.Ricordi, odori e sapori nell’ultimo romanzo di Carmine Abate, il maggiore scrittore arberesh vivente  
Punta Alice

Sulla costa jonica della Calabria, una trentina di chilometri a sud di Crotone, in un territorio fitto di vigneti del più noto vino calabrese, il Cirò, ci s’imbatte in un promontorio di forte suggestione: quella Punta Alice che s’insinua aguzza in un mare rinomato per la sua limpidezza. Su queste immense spiagge sabbiose, orlate da boschi di tamerici, eucalipti, aceri, acacie, pioppi e pini, sbarcarono i primi coloni greci e qui nei dintorni fondarono verso il VII sec. a. C. la città di Krimisa, famosa per il suo santuario dedicato ad Apollo Aleo. Oggi gli scarsi resti di questo tempio in stile dorico, visibili presso un faro funzionante dal 1896, non fanno neppure lontanamente immaginare la ricchezza dei reperti qui rinvenuti negli anni Venti dal famoso archeologo trentino Paolo Orsi e ora distribuiti fra i musei di Cirò Marina, Crotone e Reggio.

Ancora su queste stesse coste ospitali, alla fine del Quattrocento, cercarono rifugio le prime ondate di albanesi in fuga dalla loro patria e dalla Grecia occupate dai turchi: discendono da loro gli attuali arbëreshë o albanesi d’Italia. Queste comunità, tra le più interessanti della Calabria per aver conservato gli usi, le tradizioni e la stessa lingua (l’albanese antico) dei loro esuli antenati, sono distribuite a macchia di leopardo nella regione. Quanto al culto, il rito bizantino sopravvive soprattutto in quelle della provincia di Cosenza.

 

 

Tra le personalità arbëreshë viventi di maggior spicco è lo scrittore Carmine Abate. Originario di un piccolo borgo del Crotonese, Carfizzi, è autore pluripremiato di racconti, romanzi e saggi quasi tutti incentrati sui temi dei migranti, della tolleranza e dell’incontro tra culture diverse, nei quali ha trasfuso l’amore per le sue radici e la propria esperienza di migrante in cerca di lavoro in Germania. Peculiarità della sua opera sono la fresca vena narrativa, lo stile scorrevole, la lingua insaporita da termini dialettali: elementi, questi, che si ritrovano anche nell’ultimo romanzo edito, come gli altri, da Mondadori: Il banchetto di nozze e altri sapori.

 

 

Non si tratta, come potrebbe far pensare il titolo, di una banale raccolta di ricette che fa il verso a certi stereotipati programmi culinari tv: qui il cibo è espressione di una identità, memoria che riporta alla luce, rendendoli presenti e palpitanti, valori e squarci di vita passata che si pensava sepolti (come non ricordare Proust di Dalla parte di Swann quando descrive l’esperienza fatta assaporando le petites madeleines?).

Del resto, l’accento posto da Abate sui cibi tradizionali (non solo calabresi, ma anche degli altri luoghi dove ha vissuto) si intreccia ai personaggi ricchi di umanità che hanno contribuito alla sua formazione, primi fra tutti i familiari, o altri come il “cuoco d’Arbëria”, artefice del memorabile “banchetto di nozze” che dà il titolo al libro, ora intento a ricostruire in terra straniera, nella sua casetta con orto chiamata dagli amici Villa Gustosa, il mondo da cui proviene: un arbëreschë autentico, libero, sapiente non solo nell’arte culinaria ma in quella del vivere. «Un uomo – osserva lo scrittore – che ad ogni incontro mi riempiva il cuore di buonumore e di cibi saporiti».

 

 

La memoria, dunque, è il motivo conduttore di questo racconto autobiografico che ad ogni pagina sprigiona profumi appetitosi e memorie tristi e dolci, ed abbracciando l’infanzia e la maturità dell’autore non a caso inizia e si conclude proprio a Punta Alice, «luogo di una magarìa rapinosa». Nel primo capitolo il piccolo Carmine (Carminù) di sette anni, convalescente a Cirò Marina da una grave malattia, viene indotto dalla nonna a una gita sul promontorio grazie al “ricatto” di una squisita e indimenticabile frittata “mare e monti” di cui lei possiede il segreto. Nell’ultimo capitolo è Carmine, ora sposato e padre di due figli, a invogliare il maggiore (anche lui sette anni), Michele, a trascorrere una Pasquetta in quel sito così ricco di passato, che «si infila nello Jonio come la punta di una spada».

 

 

Lì, in attesa di assaggiare le “cuzzupe” (i tipici dolci pasquali) e le altre squisitezze cucinate dalla madre dello scrittore, il bambino apprende dalle labbra di lui la storia della frittata “mare e monti”. E si stupisce quando vede la nonna chinarsi sulla sabbia, toccarla con le dita e poi baciarle.

Al perché del nipote, lei risponde: «Non lo so, gioia, l’ho fatto così, per tradizione, perché lo faceva la mia mamma, ma non ricordo bene il motivo, scusami, ho dimenticato tutto». Interviene l’autore: «”Allora raccontai a mio figlio che su quella spiaggia erano sbarcati i nostri antenati alla fine del Quattrocento. Perché? Non volevano vivere sottomessi all’impero ottomano. Meglio liberi in terra straniera che schiavi in casa propria”. “Come i poveri che arrivano da noi con i barconi?” mi domandò mio figlio spiazzandomi. “Più o meno” gli risposi».

Il passato si ricongiunge così ad un presente dove la tragedia dell’esilio si ripete per altri popoli. La Pasquetta a Punta Alice termina così: con cibo e bevande condivisi con altre tavolate sulla spiaggia, fra musica, canti, allegria e rievocazioni nostalgiche: un rito che, oltre a rinsaldare i legami familiari, fa anche di chi non si conosce «amici di vecchia data», restituendo all’autore «dopo tanto tempo il sapore perduto della cuntentizza».

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