Il salto nel vuoto del “no” greco

Con la netta vittoria del No in Grecia al referendum di domenica 5 luglio, l’Unione europea è entrata in una terra sconosciuta. Un risultato che rende difficilissimo questo momento della storia europea e che rende più urgente che mai, un accordo tra i paesi della zona euro
Grecia vota No

Dopo mesi di muro contro muro nei negoziati tra il governo greco e i partner dalla zona euro, il premier greco Tsipras ha tirato fuori il coniglio dal cappello e indetto un referendum sul progetto di accordo sottoposto il 25 giugno all’eurogruppo (riunione dei ministri delle finanze della zona euro) da Commissione Europea, FMI e Bce.

Probabilmente nessuno degli otto milioni di aventi diritto al voto ha letto il testo del progetto, che conteneva in particolare la lista delle condizioni (riforme per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche greche) poste dai finanziatori europei e internazionali per continuare a sostenere finanziariamente la Grecia, condizioni peraltro già annacquate durante gli sterili tentativi di negoziati dei mesi scorsi.

Se dal punto di vista democratico l’iniziativa di Tsipras è ineccepibile, il referendum ha gettato nello sconcerto i partner europei, coscienti della necessità (per la Grecia, che ora rischia una vera e propria crisi umanitaria, e per l’Ue nel suo complesso) di arrivare ad un accordo e molto preoccupati della possibilità di poterne trovare uno dopo la consultazione popolare, qualsiasi ne fosse l’esito.

I Paesi che condividono l’euro con la Grecia sono sempre stati d’altronde allergici ai referendum: il governo del socialista George Papandreu è caduto, nel novembre 2011 – pare un secolo, si sono già succeduti quattro governi in Grecia da allora – proprio dopo aver proposto un referendum sul piano di uscita dalla crisi, che prevedeva tra l’altro la cancellazione di 50 per cento  del debito greco detenuto dal settore bancario privato. Si dice che all’epoca fosse soprattutto la cancelliera Merkel (istigata, secondo i maligni, dall’opposizione greca di centrodestra di allora) contraria alla consultazione del popolo greco; probabilmente è stata un’occasione mancata, e un referendum nel 2011 avrebbe permesso di fare chiarezza e magari di ottenere, da una cittadinanza greca non ancora fiaccata da anni di recessione e riforme (fatte a metà e solo sulle spalle delle fasce più deboli della popolazione) un mandato per adottare misure che ancora oggi restano necessarie (far pagare le tasse agli armatori, mettere a posto il catasto, allineare l’età pensionabile reale al resto d’Europa, …).

Si è trattato all’epoca, secondo noi, di miopia da parte degli stati dell’eurozona e, da allora in poi, di un balletto di egoismi nazionali (da parte degli stati creditori) e di posizioni velleitarie (da parte del governo greco attuale, che in pratica aveva come base negoziale ricevere prestiti senza una data fissa per rimborsarli, cosa che assomiglia drammaticamente a “mai”).

Ora il referendum si è fatto, Alexis Tsipras l’ha voluto, affermando che la proposta del 25 giugno “contravveniva i principi fondatori ed i valori dell’Unione europea” e gli elettori greci tale proposta hanno rifiutato.

Il dramma è che un accordo va in ogni caso trovato. La Grecia è già in stato di parziale insolvibilità e la bancarotta è dietro l’angolo. Il 20 luglio scadono 3,5 miliardi di buoni del tesoro che la Grecia deve rimborsare alla Banca centrale europea e i soldi per rimborsarli, semplicemente, nelle casse elleniche non ci sono. D’altra parte la Bce è l’istituzione Ue che più decisamente ha aiutato la Grecia, da ultimo all’indomani del referendum decidendo di continuare a finanziare, malgrado il “no”, le banche greche. Ma dopo il 20 luglio? Senza l’appoggio della Bce le banche greche, che pure hanno superato i recenti test di solidità cui sono state sottoposte tutte le maggiori banche europee, fallirebbero ipso facto.

Paradossalmente, proprio il no greco potrebbe dare una spinta inattesa ai negoziati. I greci hanno bisogno di un accordo, e di fare presto prima di andare in bancarotta. L’ha capito bene il ministro delle finanze Varoufakis, che ha dato le dimissioni la sera stessa del referendum. L’economista greco, esperto della teoria dei giochi che – come spesso accade – ha giocato così male sul tavolo dei negoziati europei che già ad aprile il premier Tsipras si era visto costretto a sostituirlo come chief negotiator con Euclides Tsakalotos, ha capito che la sua persona era diventata troppo ingombrante e si è tolto di mezzo. Proprio Tsakalotos l’ha sostituito nel delicato ruolo di ministro delle finanze.

Ma anche l’Ue ha bisogno dell’accordo, non tanto per sperare di recuperare i soldi prestati alla Grecia (i vari stati della zona euro stanno cominciando più o meno velatamente a contabilizzare le perdite nei loro bilanci) ma, semplicemente, perché l’Ue non può permettersi di perdere pezzi per strada: la Grecia con il paventato Grexit o la Gran Bretagna con l’altrettanto temuto Brexit (il referendum voluto da Cameron).

Intendiamoci, con il “no” l’accordo è diventato, nel contenuto, più difficile. Però il “no” ha iniettato un senso di urgenza, di necessità di chiudere, che forse mancava. Non sono più possibili, semplicemente, tergiversazioni: occorre abbandonare egoismi e velleità, e cercare una via comune. Via sconosciuta ma possibile e necessaria. Si sono persi anni dal tentativo di referendum del 2011, poi mesi in confronti sterili dall’ascesa al potere di Syriza a gennaio 2015. Ora è questione di settimane, se non di giorni; ogni governo, ogni istituzione Ue è di fronte alle sue responsabilità ed a un salto di qualità necessario per continuare insieme.

Se questo salto di qualità ci sarà, chissà che non serva su altri dossier cruciali ed attualmente in stallo, come la questione delle migrazioni e dell’Ucraina?

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