Il referendum spiegato ad un amico straniero

Molti in Europa si dicono preoccupati del risultato del referendum del 4 dicembre. Lo spettro della Brexit, l’elezione di Trump e l’ondata populista che invade alcuni Paesi dell’Ue non aiutano ad avere le idee chiare. Ma il voto italiano al referendum non è una Brexit. Un contributo per aiutare a capire la portata del nostro voto

La sera del 4 dicembre, appena chiuse le urne, la situazione è diventata chiara: la riforma costituzionale, cui il premier Renzi aveva legato il suo destino a capo del governo, è stata nettamente respinta dagli italiani. Un’ora più tardi, Renzi annunciava le sue dimissioni. Dimissioni, tuttavia, che il presidente Mattarella ha differito fino all’adozione legge di stabilità finanziaria 2017.

Andrebbe tuttavia evitato ogni paragone, pur avanzato nei commenti,  con il voto britannico di uscita dall’Unione europea o la novità inaspettata dell’elezione di Trump alla Casa Bianca e dei vari movimenti che interessa la popolazione di alcuni Paesi europei.

 

Qual era la posta in gioco? In aprile 2013, Giorgio Napolitano è stato rieletto presidente due mesi dopo elezioni politiche che non avevano dato al paese una maggioranza in grado di governare. Ha accettato la rielezione, caso unico nella storia repubblicana, a condizione che il nuovo governo si impegnasse in un processo di riforme.

 

Dopo un anno di governo Letta, Renzi, segretario del Pd, ha bruscamente estromesso il presidente del consiglio per prendere lui stesso le redini dell’esecutivo. Renzi aveva infatti concordato con Berlusconi una linea di riforme costituzionali all’insegna della maggiore governabilità: più potere al governo; ricalibrare a favore dello stato materie che una precedente riforma costituzionale aveva dato alle regioni; porre fine al bicameralismo perfetto, riducendo le competenze e il numero di senatori, da scegliersi tra i membri dei consigli regionali e i sindaci.

 

Sin dal momento del suo annuncio, Renzi ha fatto della riforma costituzionale un plebiscito a favore o contro la sua persona, annunciando che si sarebbe dimesso in caso di insuccesso. Ha anche voluto il referendum, che non era necessario termini strettamente legali (nessuno dei soggetti previsti dall’articolo 138 della costituzione ne aveva fatto richiesta), forse nell’intento di darsi una legittimità, attraverso il voto referendario, come capo di un governo che non era uscito dalle urne ma dalla volontà del presidente Napolitano. Certamente si sentiva forte del 40,8% dei voti ottenuti alle elezioni europee del 2014.

 

Come spesso accade, il fronte del no ha tuttavia coalizzato diversi gruppi, dalle motivazioni più disparate, che sono risultati maggioritari.

 

C’è stato chi, sulla scia di undici ex presidenti e undici ex vicepresidenti della corte costituzionale ha ritenuto che le riforme fossero un cattivo affare, dando troppo potere all’esecutivo a spese dell’equilibrio democratico. Tanto più che nessuno, tra gli elettori, aveva dato mandato a questo parlamento di fare le riforme, che non figuravano in nessuno dei programmi per le elezioni politiche del 2013; al contrario, la legge utilizzata per eleggere il parlamento è stata ritenuta illegittima dalla corte costituzionale, il che ha minato la legittimità degli eletti, oltretutto per riformare le regole del gioco.

 

Altri erano apertamente contrari a Renzi, tra cui forse alcuni che hanno mal sopportato la sua onnipresenza, nell’ultimo mese, in tutti i canali televisivi, così come i tentativi, piuttosto maldestri, del suo governo o di esponenti locali del suo partito, di attrarre i voti degli indecisi con misure di spesa pubblica, veri e propri regali a favore dell’una o l’altra categoria.

 

Infine, il malcontento di gran parte della popolazione impoverita dalla crisi, dei giovani senza prospettive di un corretto inserimento nel mondo di lavoro, o semplicemente delle persone angosciate per l’ondata migratoria che colpisce l’Italia, hanno fatto il resto. Gli elettori vicini a partiti come la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle sono stati, dal canto  loro, ben felici di cogliere l’occasione per sbarazzarsi di Renzi.

 

Il voto di domenica 4 dicembre non deve tuttavia essere visto, come evidenziato da Mario Monti martedì su La Stampa, come un voto populista, tanto meno come un voto contro l’Europa. La riforma sollevava reali perplessità, anche tra coloro che si sono pronunciati a suo favore – tra i quali, all’ultimo minuto, Prodi.

 

Si è piuttosto trattato di una scommessa, molto rischioso, da parte di Matteo Renzi. Non si era probabilmente reso conto di aver perso il contatto con le aspirazioni e le paure dei suoi connazionali, e ha cercato la conferma di un consenso che non aveva più.

 

Le prossime settimane non saranno facili in Italia, e in primo luogo occorrerà cercare un nuovo governo. L’onda populista, se ci sarà, dovrà però attendere le prossime elezioni politiche (nel 2018, come previsto, o prima) per scatenarsi.

 

Resta in bocca, malgrado tutto, un senso di amarezza per una crisi che avrebbe potuto essere evitata se non si fossero caricate di una componente politica riforme che si potevano preparare meglio, con un vero e proprio mandato popolare, e che non avrebbero dovuto essere personalizzate. Le regole del gioco appartengono a tutti: collegarle al destino di un singolo giocatore è sempre un errore, qualunque sia il risultato di un referendum.

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