Il nuovo nome della pace è sviluppo. Ma quale?

Secondo Benedetto XVI si può uscire dalla crisi solo attraverso la gratuità. Alcuni passi concreti che coniugano economia e felicità e invitano ad osare su nuovi modelli che implichino anche la responsabilità sociale dell'impresa
Barbone

Di fronte all’indigenza e all’ingiustizia non basta predicare la pace con meri appelli morali, ma occorre impegnarsi in un processo di cambiamento economico e sociale che dia a tutti la possibilità di una vita dignitosa. La famosissima e citatissima frase di Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio del 1967, “Il nuovo nome della pace è lo sviluppo”, sottolineava questa urgenza. E la promozione dello sviluppo è stata, anche per la Chiesa, una grande parola d’ordine dei decenni che seguirono.

Poi, pian piano, il clima culturale è cambiato e di sviluppo, anche nel mondo ecclesiale, si è parlato sempre meno, anche se, per fortuna, minoranze fortemente motivate hanno continuato ad occuparsene. Nel frattempo una parte consistente del cosiddetto Terzo Mondo ha sperimentato una crescita economica sorprendente, in alcuni casi addirittura travolgente, accompagnata purtroppo da quegli stessi mali che portò con sé la prima industrializzazione dell’Europa. Il tutto con una grande invadenza della logica commerciale e all’insegna di un edonismo individualista indubbiamente attraente, ma intrinsecamente deludente: caratteristiche, queste, che oggi accomunano più che in passato Nord e Sud, Est e Ovest.

Un nuovo sguardo sull’economia
Ora, nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2013, il papa torna a parlare di sviluppo, anzi di «un nuovo modello di sviluppo», espressione che ultimamente era caduta in disuso. Scrive Benedetto XVI, proponendo «un nuovo sguardo sull’economia»: «Per uscire dall’attuale crisi finanziaria ed economica – che ha per effetto una crescita delle disuguaglianze – sono necessarie persone, gruppi, istituzioni che promuovano la vita favorendo la creatività umana per trarre, perfino dalla crisi, un’occasione di discernimento e di un nuovo modello economico. Quello prevalso negli ultimi decenni postulava la ricerca della massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica, intesa a valutare le persone solo per la loro capacità di rispondere alle esigenze della competitività. In un’altra prospettiva, invece, il vero e duraturo successo lo si ottiene con il dono di sé, delle proprie capacità intellettuali, della propria intraprendenza, poiché lo sviluppo economico vivibile, cioè autenticamente umano, ha bisogno del principio di gratuità come espressione di fraternità e della logica del dono».

Si tratta di affermazioni non del tutto nuove per la dottrina sociale della Chiesa, ma che oggi suonano all’unisono con quelle che ci vengono da recenti filoni di studio. Dalle ricerche su economia e felicità emerge che i beni che si comprano con i soldi contano relativamente poco ai fini dello ‘star bene’ (ossia avere stati d’animo positivi ed essere soddisfatti della propria vita), mentre conta di più avere positive relazioni familiari, amicali, professionali, associative. Su un altro versante la scienza economica sta riscoprendo il ruolo che svolgono in economia le cosiddette “motivazioni intrinseche”, ossia la spinta all’impegno sia lavorativo che imprenditoriale che viene non dalle prospettive di guadagno, ma dai significati che quelle azioni hanno in sé stesse per l’attore economico. Qui trovano posto la sfida alle proprie capacità, il gusto di esperimentare qualcosa di nuovo, ma anche il fatto che le proprie energie possano risultare utili ai colleghi, agli utenti, a beneficiari lontani.

Il cambiamento in atto
Le parole del papa non ci danno la formula, tuttora sconosciuta, del “nuovo modello di sviluppo”, di cui ha grande bisogno l’economia di oggi, immersa in uno stato in profonda crisi, sia per i risultati che non riesce a dare (in fatto di occupazione, stabilità dei redditi, equità…), sia per l’immagine deprimente che offre di sé: avidità di speculatori finanziari che succhiano ricchezze che non contribuiscono a creare, disinteresse per la persona del lavoratore o del cliente, ridotti a strumenti per l’arricchimento altrui, malfunzionamento degli organismi pubblici, spesso guidati da interessi personali e piccoli opportunismi.

Tuttavia, nel messaggio per la Giornata della pace (come peraltro nella Caritas in Veritate) c’è il richiamo ad osare seguendo logiche nuove, anche in economia. La formula del nuovo modello di sviluppo non ce l’ha in tasca nessuno, ma la sperimentazione operativa di alcuni suoi ingredienti è attivamente in corso: è di pochi giorni fa il lancio di Opes Impact Fund, un fondo di investimento non profit che raccoglie capitali privati con cui finanziare imprese sociali che propongono soluzioni innovative ai bisogni più scottanti degli italiani meno favoriti (e non è certo la prima iniziativa del genere). Durante la crisi sono cresciuti la vitalità e il fermento di idee del mondo cooperativo, tradizionale strumento di un’economia promossa dagli stessi beneficiari; si moltiplicano i siti che promuovono forme di baratto o di condivisione di oggetti o di viaggi in auto, con evidenti benefici per il portafoglio e per l’ambiente. L’idea di responsabilità sociale di impresa viene declinata in modi sempre nuovi, in vari casi con autenticità, come si può vedere ad esempio scorrendo la lista dei progetti vincitori del Sodalitas Social Award (forse il più importante premio italiano in questo campo) il consolidamento dell’esperienza pilota delle imprese di Economia di Comunione, portatrici di una visione umanistica e “comunionale” della vita economica. Tutti semi di un futuro economico possibile nel quale sperare e per il quale operare, con una convergenza di sforzi.

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