Il nostro Sud in un Paese reciprocamente solidale

Il vescovo Bregantini, a Loppiano, ha presentato l’ultimo suo libro: un’intervista con Paolo Loriga su Sud, lavoro, mafia, immigrati, Lega. Più di 200 i presenti alla prima nazionale. Anticipiamo tre risposte.
Il nostro sud
Il caporedattore di Città Nuova Paolo Loriga ha incontrato, parecchie volte, mons. Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso Bojano e presidente della commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro. Mancava ancora qualche mese alle Settimane sociali di Reggio Calabria, il documento della Chiesa italiana sul Mezzoggiorno aveva aperto spazi di riflessione importanti, poi c’era tutta l’esperienza di questo vescovo che si era distinto per la sua scelta a favore della legalità e dei giovani in terre del Sud particolamente travagliate. Il momento ideale per ripuntare al Paese proprio a partire dal Sud.

 

Dal dialogo tra Loriga e Bregantini è nato un libro: Il nostro Sud in un Paese reciprocamente solidale, edito da Città Nuova (pp.100) . La prima presentazione nazionale si è svolta al Polo Lionello di Loppiano, vicino Incisa Valdarno, il 17 novembre, alla presenza di più di duecento persone. Anticipiamo sul nostro sito tre delle risposte su temi caldi del momento sociale e politico italiano: la questione meridionale irrisolta, il ruolo emergente della Lega, l’Italia divisa.

 

 

La questione meridionale ha cessato di essere una priorità politica ed economica e sembra coincidere con la “questione criminale”. L’idea di Mezzogiorno intesa come questione nazionale non riducibile a un fatto regionale non trova più posto nell’agenda della politica. Come si può invertire la tendenza?

 

«Come vescovi abbiamo fatto uscire nel febbraio del 2010 un documento – Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno – che rilancia l’impostazione del precedente intervento del 1989, secondo il famoso slogan: «Il Paese non crescerà se non insieme». Il testo ribadisce in maniera molto esplicita – perché è un’impostazione determinante – che la questione meridionale deve essere vista all’interno del cammino dell’unità d’Italia – dei 150 anni di storia comune – e dentro il futuro stesso della questione italiana.

Solo così è possibile avere contemporaneamente chiara la necessità di guardare al Sud per il suo valore e di sentire che il Nord deve guardare il Sud con un occhio diverso. Nella riflessione maturata nei molti anni in Calabria, e che è proseguita anche qui in Molise, abbiamo sviluppato tre parole chiave.

La prima è marginalità, si tratta cioè di conoscere le questioni che rendono marginali certe zone d’Italia e erte realtà culturali. La conoscenza di questi meccanismi è decisiva e non c’è possibilità reale di sviluppo se non conoscendo le ragioni per cui una terra è dimenticata, che si tratti della Locride o del Molise.

Però la conoscenza delle realtà marginali non può essere solo descrittiva – sapere le ragioni dell’insorgere di un fenomeno e le sue caratteristiche –,perché sarebbe solo un’operazione intellettualistica. Occorre cogliere la presenza di certi fattori che possono mettere in moto meccanismi in positivo per trasformare la marginalità in tipicità.

Intendo dire che da un’analisi di una terra marginale,vi si possono cogliere dei valori unici, specifici, frutto di una serie di avvenimenti e di fenomeni sociali che l’hanno resa tale. L’operazione cruciale sta nel trasformare – e questo è un processo culturale lunghissimo, in cui l’università ha un rilevante ruolo –, sta nel trasformare la storia della marginalità in valore aggiunto, in fattore positivo, in identità riconosciuta e riconquistata.

Immagini quanto sia importante questo sforzo per il Sud. Ma una volta conosciuta la marginalità, trasformata progressivamente in tipicità, bisogna intrecciarla in un contesto più ampio con un processo di reciprocità. E allora la reciprocità porta a perfezione la conoscenza della marginalità – per cui non mi scoraggio davanti alle situazioni, ma le conosco, le trasformo in valore positivo, identitario, e le collego con altre»

 

Qual è la sua lettura del fenomeno leghista?

 

«La Lega, dove è presente, non vivacchia ma vince perché punta sulla trasformazione delle situazioni specifiche di una terra in valore aggiunto. Il grande dono, ad esempio, che la Lega ha fatto al Veneto sulla scia positiva dell’azione della Democrazia cristiana è quello di dare fierezza a questo popolo, a questa terra un tempo luogo di emigrazione, di dire che il Veneto ha una storia, una lingua, una cultura, ha pure la polenta, non come fattori di povertà ma come valori positivi.

La Lega fa invece fatica ad agganciare la tipicità di una terra con le tipicità di altre regioni, e quindi chiude quelle terre, le rinchiude, addirittura le spezza, perché manca la reciprocità.

E senza reciprocità non c’è respiro, perché si godono i beni, si difende e si consuma il proprio benessere, ma manca il dono – quello che dice Gesù: «Chi ama la propria vita la perde, chi la perde la guadagna» –. La conseguenza è che si soffoca dentro il proprio ossigeno prodotto, si muore

asfissiati. Questo è il rischio per il Nord»

 

Il Sud manca di tipicità, e potrebbe apprenderla dal Settentrione. Il Nord manca di reciprocità, che potrebbe ricevere dal Mezzogiorno. In attesa di questo, la malavita organizzata s’è diffusa anche al Centro-Nord, come testimoniano le numerose catture e le continue indagini della magistratura. Ormai il cancro delle mafi e non è più riconducibile a un fenomeno del Sud.

 

«Gli sviluppi della ’ndrangheta sono terribilmente tristi. I recenti 300 arresti, di cui moltissimi al Settentrione, testimoniano che il Nord ha sottovalutato il problema della mafia calabrese.

Ci si è limitati a difendersi, pensando che i problemi sarebbero rimasti in casa loro. In realtà, se c’è cattivo odore nella stanza accanto, prima o poi arriva anche da noi. La soluzione non sta nel chiudere le porte, ma nel ripulire dalla sporcizia quell’ambiente. E bisogna essere consapevoli che si vive tutti nella casa comune. La Calabria non è stata aiutata con un’alleanza intelligente e strategica nel combattere la ’ndrangheta. S’è ritenuto che fosse un problema del Sud: “Che si arrangino, i terroni. Noi non ce l’abbiamo”.

Invece la ’ndrangheta – se la si conosce – ha avuto tutto l’interesse ad andare al Nord, dove ci sono denaro e possibilità di investimenti produttivi. La ’ndrangheta, infatti, investe pochissimo al Sud, tanto che miseria c’era e miseria è rimasta. Non fa nessuna iniziativa produttiva al Sud, perché sa di ottenere una resa minima, non proporzionata all’investimento compiuto. Mentre il Nord è ormai diventato la frontiera allettante di una strategia economica sviluppatissima.

Questa espansione tentacolare della ’ndrangheta costringe a rivedere logiche ormai superate e obbliga a far diventare la questione meridionale una questione nazionale, come spiegava con chiarezza esemplare don Luigi Sturzo. Attenzione, però. Non nella logica del “Poverini, vi dobbiamo aiutare”, ma nella convinzione che “Io ti aiuto a risolvere il tuo problema,convinto che nel momento in cui tu lo risolvi dai anche a me la possibilità di risolverlo”. Perché il problema è nostro, non mio o tuo. È mancata questa impostazione».

 

 

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