Il figlio di Saul

In molti modi si è raccontata ed ancora si racconterà la tragedia della Shoah e se ne troveranno altri per dare corpo a questo orrore e sostanza al rifiuto della possibilità che si ripeta in qualunque forma
film

Il film Il figlio di Saul, che uscirà nelle sale italiane il 21 gennaio e che ha avuto il Grand Prix del Festival di Cannes e il Golden Globe Awards per il miglior film straniero,  è un modo originale e poetico eppure aderente alla realtà ed alle testimonianze che  sicuramente lascia lo spettatore nel silenzio e nella condivisione della speranza, della dignità e del dolore assurdo ed insensato dello sterminio.

La storia è semplice: un membro delSommercommando, (incaricato di accompagnare, tranquillizzare e spogliare i destinati alle docce mortali di AuschwitzBirkenau, di raccoglierne gli averi e di bruciarne i corpi), identifica in un corpo di ragazzo suo figlio e decide di curarne la sepoltura trovando un rabbino disponibile a recitare il Kaddish, la preghiera funebre. Questo nel contesto del crematorio del campo di sterminio e di un tentativo di rivolta e di fuga.

Il tempo è quello di uno stato confusionale e la rappresentazione dell’inferno non potrebbe essere diversa: egoismi e violenza, paura ed orrore, inganno e sopraffazione, dolore e morte regnano intorno al protagonista. La sua solitudine è assoluta, la sua impenetrabilità, la sua freddezza e indecifrabile ostinazione nel portare avanti quello che è diventato improvvisamente il suo compito sono altrettanto assolute. La centralità della sua persona, l’osservazione da vicino del protagonista e dei pochi volti che con lui si relazionano è sottolineata per tutta la durata del film dall’effetto che non mette a fuoco tutto ciò che è in secondo piano, dall’utilizzazione della sottotitolatura per i brevi dialoghi, nelle varie lingue originali, e dai rumori di ciò che avviene all’intorno che avvolgono eppure restano sempre estranei.

E’ in questo secondo piano, in questo sfondo ed in questi suoni all’intorno, che si radunano deportati nella speranza d’una fuga mentre altri sono ingannati, picchiati, torturati, uccisi. Si trascinano ed ammucchiano corpi nudi, di uomini e donne, considerati “pezzi” in questa fabbrica della morte che ha in sé la sua illogica, eppure estremamente razionalizzata, produttività nello sterminio e nella sua negazione, cancellazione, perché prevede la camera a gas, il forno ma anche la dispersione delle ceneri.

Raccogliere il corpo di questo ragazzo, salvaguardarlo dalla distruzione del fuoco e pregare per lui nel seppellirlo non è solo un atto di pietà religiosa, né solo un ultimo atto d’affetto d’un padre, è la volontà di riconoscere in lui la dignità di quell’umanità che si sta disfacendo intorno a lui nel compiersi di questo assurdità; è la volontà di riaffermare che al di là della morte permane la memoria, la speranza e per questo si può rischiare tutto se stessi. In un contesto in cui nessuno pensa ad altri che a se stessi, in cui non ci sono eroi assoluti ma uomini che sanno più o meno rispondere alla situazione con coerente umanità, con disperata voglia di vivere o con la disperazione più accecante, il compito assurdo di seppellire un morto e pregare per lui diventa il segno d’un riscatto.

Tra le testimonianze di chi scampò da Buchenwald ho letto quella di un italiano  che raccontando l’orrore sottolineava come la perdita della dignità e della consapevolezza di essere uomini attanagliava tutti. Nel giorno della liberazione, in cui ancora non ci si rendeva conto di essere liberi, uno di loro morì, ed allora fu fatta una bara, vi si depose il corpo e gli si diede sepoltura, e, a suo dire, solo allora capirono d’essere nuovamente uomini.

E’ forse questo il contenuto specifico di questo film ungherese, duro e poetico ad un tempo, crudele e veritiero, pregno del desiderio di far memoria, di fare un Kaddish, a cui siamo invitati.

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