Il dolore ebreo in musica tedesca

A Roma la cantante ebrea Charlette Shulamit Ottolenghi e il poeta Oreste Bisazza Terracini fanno memoria della Shoà, accompagnati dall’orchestra giovanile di Monte Mario e dalla corale dell’Università cattolica
Charlette Shulamit Ottolenghi
Nulla cade nell’oblio, né il bene, né il male. L’esordio del poeta Oreste Bisazza Terracini, nell’Auditorium dell’ Università cattolica di Roma, per celebrare la giornata della memoria, non concede sconti sulla memoria della Shoà e di tutti i drammi del secolo scorso: strage degli armeni, degli zingari, degli istriani. Tutte pagine sanguinanti della nostra storia, ferite ancora aperte nei testimoni che sul palco hanno ancora l’ardire di raccontare. Oreste Bisazza per metà ebreo e per metà italiano a otto anni ha conosciuto un campo in Svizzera, anzi ne ha visitati vari nella sua infanzia e lui stesso confessa che senza questi anni in cui l’orrore gli ha sottratto la spensieratezza non si sarebbe mai preoccupato della sua origine e forse neppure di mettere in versi la morte, i vinti, gli innocenti giustiziati.

Eppure la manifestazione di ieri, non voleva essere solo una mesta commemorazione di circostanza, ma “Una voce per la vita”, come recitava il manifesto pubblicitario della serata che ha voluto raccogliere attorno al ricordo le arti: musica, pittura, poesia.

La vita si è espressa anche attraverso il canto della corale dell’Università cattolica, che diretta da don Angelo Auletta ha pescato nella tradizione biblica dei salmi riproponendo in chiave jazz, gospel e contemporanea, l’esperienza di un popolo che implora l’intervento del suo Dio e che assiste, talvolta incredulo, ai suoi miracoli e prodigi.

Toccante l’interpretazione della cantante Charlette Shulamit Ottolenghi, accompagnata dall’orchestra giovanile di Monte Mario, diretta dal maestro Alfredo Santoloci. Una contaminazione interessante e commovente in certi passaggi tra i canti scritti nei campi di concentramento e passaggi musicali arditi, dove sax, chitarra elettrica, fisarmonica graffiano la soavità di violini e fiati. Sentir cantare in tedesco, la lingua degli aguzzini, lo strazio di un popolo tocca la platea, letteralmente attaccata alle poltrone con il fiato sospeso, che solo al bis si scioglie accompagnando con il ritmo delle mani una canzone moldava.

Negli acuti di Charlette e negli arrangiamenti tra il filologico e lo sperimentale di Santoloci prendono vita la madre che riesce a salvare un solo figlio, la nostalgia per la casa abbandonata, il terrore di fronte alle baracche dei prigionieri “file e file per le migliaia di uomini che ancora arriveranno”. Un Kaddish in aramaico affida alla storia queste vite spezzate di ebrei tedeschi, rifiutati dalla loro stessa patria e consegna a tutti noi un monito: ricordare è non dimenticare e soprattutto non ripetere.  

 

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