Il caso dell’Huffington Post

È stato venduto per 315 milioni di dollari. La “class action” dei blogger per una redistribuzione della ricchezza. Domande sugli effetti contraddittori della gratuità senza economia del dono.
huffington post

Il nome non è una storpiatura del famoso Washington Post, perché il sito di notizie Huffington Post prende semplicemente il nome dal cognome, acquisito, della donna che lo ha co-fondato nel 2005. Dicono da zero, anche se l’operazione è partita assieme a Ken Lerer, che non è un ragazzo smanettone sul computer ma un businessman esperto nelle reti. L’impresa si è rivelata di successo, tanto che America On Line (Aol) ha deciso, a febbraio del 2011, di acquistarne il controllo per 315 milioni di dollari. Una bazzecola per Aol, uno dei giganti di internet, protagonista di varie operazioni societarie come la fusione, non proprio felice, con Time Warner, altro colosso dei media.

 

Ma quando si sono materializzati tanti soldi verso un sito web di successo, raggiunto da 25 milioni di visitatori unici, è sorta una domanda spontanea: chi ha prodotto questa ricchezza? Che poi consiste nell’aspettativa di inserzioni pubblicitarie a pagamento. La questione non riguarda lo staff di giornalisti e tecnici in forza presso la testata online, che magari potranno beneficiare di qualche bonus così come ricevere sorprese meno piacevoli, ma i numerosi autori dei blog che hanno prodotto una gran massa di contenuti pubblicati sull’Huffington Post. Una collaborazione di tipo gratuito che troverebbe, secondo gli studiosi della rete, motivazioni diverse dal compenso monetario.

 

Si tratta di uno dei principi fondamentali che, secondo alcuni, internet avrebbe introdotto ottenendo risultati impensabili. Si pensi al lavoro gratuito nel campo della conoscenza che ha permesso di condividere strumenti di bene comune senza chiedere alcun compenso se non la possibilità che ognuno ne potesse usufruire liberamente. Ad esempio il software Skype, per telefonare gratis utilizzando il pc e la rete informatica, inventato da quattro informatici dell’Estonia e ora oggetto, anch’esso, di un’acquisizione, prima da parte di Ebay e ora di Microsoft.

 

Altro esempio di un successo basato sulla logica della condivisione gratuita per poi essere dirottato verso altri diversissimi criteri gestionali. Non è un mistero il fatto che alcune multinazionali hanno manifestato un interesse particolare per la gift economy, addirittura studiando i testi dell’anarchico russo Kropotkin che nel 1902 proponeva come chiave di lettura della sopravvivenza della specie umana non il principio della competizione e selezione del più forte ma la logica della cooperazione. Un riferimento esplicitamente dichiarato, tra l’altro, da alcune esperienze come le “banche del tempo” avviate in contesti urbani anonimi per ridestare un nuovo tessuto sociale.

 

Ma vicende come quella dell’Huffington Post mostrano la tendenza a minare dal di dentro le esperienze di condivisione gratuita da taluni intraviste come attuazione di una nuova democrazia dal basso. Di fatto 9 mila blogger del sito di news open source hanno attivato una class action per ottenere la quota spettante di quel valore creato con il loro lavoro “gratuito”: 105 dei 315 milioni ceduti da America On Line alla signora Arianna Huffington. La tesi dei difensori dell’azienda ha molti meno riferimenti di ordine antropologico. In sostanza affermano che i blogger pubblicati sul sito hanno già ricevuto la loro ricompensa che consisterebbe nella visibilità concessa loro dal portale. Nessuna gratuità ma solo uno scambio concordato e implicito.

 

Nel frattempo Aol-Huffington sta cercando migliaia di nuovi autori di blog disponibili a perfezionare lo scambio tra la visibilità offerta dal super sito e la pubblicazione dei loro testi. Mentre non è certo inutile sapere che Aol, già nel 2010, ha provveduto a licenziare 2300 collaboratori e si appresterebbe a ridurre a livello mondiale di circa il 20 per cento il personale restante proprio per la ristrutturazione che segue ogni acquisizione: si chiama in gergo downsizing e, di solito, colpisce lavoratori di mezza età che difficilmente ritrovano un’occupazione equivalente.

 

Un percorso involutivo, dalla gratuità come leva per una ricchezza comune alla fuoriuscita forzata dal lavoro retribuito, che parecchi studiosi invitano ad approfondire e conoscere bene superando il mito di una rivoluzione della Rete che avrebbe di per sé ridistribuito la conoscenza e quindi il potere tra tutti. Al contrario, esistono ormai tante figure di lavoratori della conoscenza che diventano facilmente sostituibili, magari in nome della “gratuità” del lavoro altrui. Un fenomeno complesso e contraddittorio da affrontare seriamente per chi intravede nell’economia del dono non uno slogan da manipolare a piacimento ma un segno dei tempi destinato ad imporsi.

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