Il “Tesoretto” (se esiste) di Renzi ai poveri senza fare elemosina

L’imprevista disponibilità finanziaria di 1, 6 miliardi di euro annunciata dal Governo, contestata nel merito dal quotidiano di Confindustria, ha acceso comunque il dibattito sulle urgenze del Paese. Intervista a Marco Di Marco, economista esperto di politica di welfare, sulla sostenibilità delle proposte in campo nella lotta al fenomeno della povertà crescente tra gli italiani   
ansa padoan renzi

Il governo Renzi ha dichiarato di aver trovato la disponibilità di 1 miliardo e 600 milioni di euro all’interno del Documento di economia e finanza (Def).  Secondo il duro commento di Fabrizio Forquet su de Il Sole 24 ore, «quei soldi proprio non ci sono. Quei soldi sono un deficit. Sono il differenziale, indicato nel Def, tra l’obiettivo programmatico del deficit/Pil  e quello tendenziale: uno 0,1 per cento di Pil che si potrebbe spendere. Ma è tutta roba di carta, numeri astratti e potenziali».  Ad ogni modo, se, alla fine dei conti, non si tratterà di uno stratagemma elettorale in vista delle competizioni regionali di fine maggio, l’inaspettata disponibilità finanziaria, chiamata da alcuni “tesoretto”, sta suscitando un dibattito sul suo possibile utilizzo visto che le urgenze e le necessità non mancano tra scuole e strade che cadono a pezzi. Secondo alcune dichiarazioni dei ministri dell’economia e del lavoro, Padoan e Poletti, sembra invece che esista l’orientamento di utilizzare le risorse aggiuntive a favore dei redditi più bassi. Questa scelta, per essere davvero efficace, non può confondersi con una elemosina ma rappresentare un primo tassello di una strategia adeguata che richiede investimenti di medio lungo termine

Sulla questione abbiamo chiesto il parere di Marco Di Marco, economista ed esperto di politiche di welfare dell’Istat che, ovviamente in questa sede esprime opinioni da studioso di carattere del tutto personali, senza coinvolgere in alcuna maniera la responsabilità dell’Istat.

Il governo, nel documento economico e finanziario, avrebbe intenzione di destinare 1,6 miliardi di euro ai meno abbienti, quali sarebbero, a suo giudizio, gli effetti potenziali sulla povertà in Italia?

«Se questi soldi vengono spesi per dare il bonus Renzi di 80 euro mensili anche a molte altre famiglie a basso reddito, si tratta di una doverosa correzione del provvedimento adottato lo scorso anno. Da più parti infatti si era osservato che la maggior parte dei 10 miliardi del bonus Renzi veniva incassata da famiglie a reddito medio. Peraltro, questa correzione, pur doverosa e condivisibile, non stabilisce ancora quella misura anti-povertà strutturale di cui c’è bisogno, non solo per l’esiguità della cifra, ma anche per altri aspetti tecnici. Da un punto di vista pratico, inoltre, gli effetti sulla povertà sarebbero piuttosto limitati anche se, come è evidente, la misura è condivisibile in linea di principio perché riduce la disuguaglianza dei redditi».

Quale politica sarebbe, invece, necessaria per intervenire in modo strutturale sulla povertà?

«Dal punto di vista aritmetico, l’assegno contro la povertà dovrebbe essere calcolato come differenza fra una soglia di reddito minimo stabilita per legge e il reddito familiare, se quest’ultimo è inferiore alla soglia stessa. In pratica, per effetto di un tale sussidio nessuna famiglia avrebbe meno del reddito minimo. In questo modo sarebbe massima l’efficienza della spesa pubblica per il contrasto alla povertà, essendo nulla la dispersione a vantaggio di non-poveri».

A quale livello deve essere fissata la soglia di reddito minimo?

«La soglia di intervento dovrebbe essere almeno pari alla linea di povertà assoluta, che corrisponde alla spesa minima di una famiglia per i consumi indispensabili. È anche opportuno che la soglia di reddito minimo sia definita a livello familiare e che sia diversa da famiglia a famiglia a seconda del numero di componenti e, volendo, di altre caratteristiche come il numero di minori a carico, l’eventuale presenza di disabili o la proprietà dell’abitazione di residenza».

Le proposte che arrivano dal mondo associativo rispettano questi criteri?

« A mio parere, rispondono a questi criteri generali le due principali proposte anti-povertà di cui si discute: il Reddito di inclusione sociale (Reis) proposto da Caritas, Acli e decine di altre associazioni e il Reddito di Cittadinanza proposto dal Movimento 5 stelle e dalla “Campagna miseria ladra” lanciata da  Libera».

Le due proposte, quindi, hanno una base comune?

«Sì, dal punto di vista matematico sono due varianti di una stessa formula, che determina il sussidio anti-povertà come un’imposta “al contrario”, quella che gli economisti chiamano imposta negativa sui redditi familiari più bassi. L’imposta è detta negativa perché in base a questo schema le famiglie povere non solo non pagano imposte, ma ricevono un sussidio».

Oltre questa base comune, quali sono, invece, le differenze più importanti fra le due proposte?

«Il Reis proposto dall’Alleanza contro la povertà costituisce, per così dire, un limite inferiore di decenza per una politica di contrasto alla povertà degna di questo nome. Infatti, propone di dare un sussidio alle famiglie che, avendo un reddito inferiore alla linea di povertà assoluta, non possono permettersi un tenore di vita dignitoso. Il Reis è, per questa ragione, il meno costoso dei due progetti, ma proprio per questo a mio avviso comporta alcuni inconvenienti che non sono presenti nella proposta del M5S e Libera».

Quali inconvenienti?

«I due più importanti limiti del Reis, rispetto alla proposta dei Cinque stelle e Libera, riguardano i disincentivi al lavoro e l’efficacia preventiva delle politiche anti-povertà. Il Reis è pari alla differenza fra la linea di povertà assoluta e l’intero reddito familiare, quindi se il reddito da lavoro della famiglia aumenta anche solo di un euro, si ha una riduzione del sussidio di uguale importo e il reddito familiare resta invariato. Questa caratteristica può scoraggiare la disponibilità a lavorare dei familiari. Il Reddito di cittadinanza proposto considera invece soltanto il 90 percento del reddito familiare e quindi attenua gli effetti di disincentivo al lavoro».

E il secondo inconveniente?

«Il Reis non è una politica di prevenzione della povertà più grave: si viene aiutati quando si è già in condizioni di povertà estrema. Per evitare il cronicizzarsi del fenomeno, sarebbe meglio intervenire prima che una famiglia sia diventata gravemente indigente, cioè stabilire una soglia di intervento (e un sussidio corrispondente) più alta, anche se non di molto, della linea di povertà assoluta, com’è nel caso del Reddito di Cittadinanza dei 5 stelle e di Libera».

 

N.B.: L’intervista riflette opinioni personali e non coinvolge la responsabilità dell’Istat

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