Il “ritorno” delle religioni sulla scena politica internazionale

Le religioni più che in passato sembrano costituire un elemento fondamentale per interpretare quanto avviene nel panorama politico mondiale. A questo argomento Pasquale Ferrara, diplomatico e accademico, dedica il suo ultimo saggio Religioni e relazioni internazionali, edito da Città Nuova.
Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico. Di Pasquale Ferrara (CN

Il fenomeno religioso suscita crescente interesse tra gli analisti di politica internazionale. Esso è oggi largamente con­siderato un elemento chiave per una più ampia e approfondita interpretazione degli eventi mondiali. In effetti, la disciplina politologica delle relazioni internazionali ha per lungo tempo escluso la religione dai parametri ritenuti fondamentali per lo studio della politica mondiale. Il “ritorno” della religione (an­zi, delle religioni) sulla scena internazionale è stato considerato da analisti, studiosi e diplomatici come un aspetto dell’avvento di un’era postsecolare che riguarderebbe, dunque, non solo i sistemi politici interni.

[…]

Si potrebbe osservare che in realtà le religioni, in quanto tali, non sono mai state assenti, nei fatti, dalle relazioni inter­nazionali e dalla politica mondiale; piuttosto, esse sono state messe tra parentesi nello studio delle relazioni internazionali (e in particolare nella teoria delle relazioni internazionali) e relativizzate anche nella condotta delle relazioni diplomatiche (salvo alcuni casi storicamente accertati, come quello italia­no nella seconda metà del Novecento). Il fenomeno al quale si è assistito è che la rigida compartimentazione tra politica mondiale, da un lato, e religioni mondiali, dall’altro, è andata attenuandosi sino a mostrare una crescente permeabilità epi­stemologica degli studiosi rispetto alle religioni stesse.

Ad ogni modo, la dimensione internazionale della rinasci­ta dei fenomeni religiosi non è stata sufficientemente esplorata nei suoi caratteri distintivi, dal momento che l’analisi si è sof­fermata da un lato sulle conseguenze dei nuovi radicalismi a sfondo religioso per i rapporti tra le civiltà (adottando quindi prevalentemente un’ottica antropologica e sociologica), dall’al­tro sulle potenzialità delle motivazioni in senso lato ricondu­cibili alle religioni nei processi di prevenzione e risoluzione dei conflitti. In base al primo approccio, le narrazioni religiose sarebbero causa di conflitto; per il secondo approccio, quelle stesse narrazioni, reinterpretate, potrebbero fornire una rinno­vata comprensione dell’aspirazione universale di ogni identità a trovare il proprio giusto ruolo in un contesto più ampio.

È pertanto opportuna una riflessione sulla funzione delle re­ligioni rispetto all’analisi propriamente sistemica delle relazioni internazionali in una fase di profonda trasformazione mondiale.

Le religioni hanno assunto una nuova dimensione globa­le a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Alcuni importan­ti processi hanno determinato la loro riapparizione sulla scena pubblica e nel discorso politico (ammesso e non concesso che davvero da esso fossero scomparse), anche internazionale:

– la rivoluzione islamica in Iran;

– lo sviluppo del movimento Solidarnos´c´ in Polonia;

– il ruolo svolto dal cattolicesimo nella rivoluzione sandini­sta e in altri rivolgimenti politici e teologici (come la “teologia della liberazione”) che hanno attraversato l’America Latina;

– il risveglio del fondamentalismo protestante (la “destra evangelica”) come forza operante nell’arena politica negli Stati Uniti10.

A tali fenomeni si aggiungono:

– la caduta del Muro di Berlino con il crollo del sociali­smo reale e la “riemersione” pubblica della religione nei Paesi dell’ex blocco sovietico;

– l’11 settembre (gli attentati alle Torri Gemelle a New York nel 2001 e il riaccendersi del dibattito su religione e violenza);

– le operazioni militari avviate negli Stati Uniti in Afgha­nistan e in Iraq con la conseguente reazione del mondo arabo-islamico;

– la minaccia del terrorismo transnazionale di Al Qaeda, che si ammanta di una retorica pseudo-religiosa;

– i nuovi movimenti islamisti in gran parte dei Paesi arabi, e in particolare il ruolo dei Fratelli Musulmani in Egitto e del partito Ennahda in Tunisia;

– l’ascesa del nazionalismo indù nel subcontinente indiano;

– il ruolo del movimento nazional-religioso israeliano nel­la colonizzazione dei territori in Palestina;

– il ruolo di Hezbollah nella politica e nelle istituzioni li­banesi;

– il ruolo di Hamas nel “governo” della Striscia di Gaza;

– il confronto/scontro a tutto campo in Medio Oriente e nel Golfo Persico tra sunniti e sciiti;

– il lungo periodo di governo del partito di ispirazione islamica Giustizia e Sviluppo in Turchia e il tramonto della politica “kemalista” (fortemente laicista).

In generale, questi fenomeni sfidano dal punto di vista an­zitutto teoretico il paradigma della secolarizzazione, sviluppato da intellettuali come Weber, Marx, Comte, Freud. Un para­digma che «sosteneva sostanzialmente che la religione rappre­senta un fenomeno regressivo, destinato a soccombere di fronte alla modernità». Una versione “attenuata” di tale tesi è quella che si limita a ipotizzare che il fenomeno religioso sarebbe sta­to sottoposto a «dinamiche di privatizzazione, de-politicizzazio­ne, differenziazione e specializzazione: sarebbe giunto, cioè, a divenire uno dei tanti aspetti della vita privata degli individui, perdendo in gran parte o del tutto il proprio impatto sulla vita pubblica e politica».

 

Da Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico di Pasquale Ferrara (Città Nuova, 2014)

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