I rifugiati, il ponte, la croce

Una giornata a Erbil basta per capire che serviranno decenni per una vera riconciliazione in uno scenario disastrato dalle ideologie della morte. La “condanna” di vivere assieme
Kurdistan

 

La città. La colazione nel piano sommitale dell'hotel mi svela Erbil, capitale del Kurdistan iracheno e il sottostante quartiere di Ankawa, quasi esclusivamente cristiano. Un campo spianato proprio qui dinanzi ospitava fino a qualche giorno fa uno dei 25 campi che erano stati allestiti per ospitare i cristiani in fuga dal Daesh, nell'agosto 2014. Oggi ne rimane uno, il più grande. C'è polvere in sospensione nell'aria. Qualche grattacielo sfida chi vorrebbe l'Iraq una terra solo retrograda. 

 

La gente della guerra. Tra i commensali tre uomini dall'indefinita nazionalità mostrano fasciature varie. Uomini d'affari trattano mercanzie varie. Un inglese pare offrire a due baffuti locali del materiale da costruzione (o da ricostruzione?) con un book patinato. Nella giornata troverò non poca gente in giro per la città che pare vivere della guerra. È sempre così quando i cannoni si fanno sentire. È l'altra faccia della guerra, anzi la quarta faccia: i belligeranti, gli affaristi, gli umanitari e le vittime.

 

Gli umanitari. Mi reco a trovare un amico iracheno che avevo conosciuto a Baghdad nell'aprile 2003, appena finita la guerra di George W. Bush. Guerra sciagurata. Come tutte le guerre e un po' di più. Il mio conoscente lavora per la Ong "Un ponte per…" che da tempo opera in Siria e Iraq tra i rifugiati. Si fa colazione con uova e fagioli, con operatori metà italiani e metà locali. C'è buon umore ma anche quella solennità che è propria di chi tratta con vittime in scenari apocalittici. Un solo verbo: concretezza creativa. Senza fantasia non si fa nulla. Senza rigore non si va da nessuna parte.

 

Le vittime. Visito l’unico campo per rifugiati cristiani scappati da Mosul, Qaraqosh e dintorni. 1200 famiglie, 5000 persone. Un campo di container dove "Un ponte per…" ha aperto una scuola, e c'è pure una chiesa siro-cattolica. La precarietà è in ogni angolo, anche se la dignità degli “abitanti” è encomiabile: un’anziana signora mi invita ad entrare a “casa sua”, dopo che il figlio mi ha offerto un pane spolverato di formaggio cucinato in un forno simile a quelli che avevano a Qaraqosh. Poche cose, una gran dignità. C’è un frigo che testimonia uno dei non frequentissimi atti di generosità che hanno da queste parti superato le frontiere religiose: un medico musulmano aveva visitato la donna, non le aveva fatto pagare nulla e in più le aveva regalato quel frigo.

 

Il vescovo. Mons. Bashar Matti Warda è il vescovo caldeo di Erbil. Dinamico, profondo, evangelico. Con lui si parla di tante cose – ci torneremo su –, ma una frase mi colpisce per la sua chiarezza: «Se qualcuno vuole emigrare lo ascolto, gli chiedo se abbia fatto bene i suoi calcoli sia per il soggiorno necessario in Giordania o Libano, sia per dopo. Li capisco, c’è troppa gente ferita dalla guerra, traumatizzata dai crimini bellici. Ma per loro non ho soldi. Chi invece, pur nell’estrema precarietà, vuole rimanere, allora di mezzi ne troviamo quanti sono necessari. È il tempo di rimanere qui».

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