I passaggi necessari della vita

La "notte necessaria" dello sviluppo e del cammino della persona, alla ricerca del proprio volto e di quello dell'altro. La realizzazione integrale del disegno umano-divino pienamente rivelato in Gesù Cristo Crocefisso e Risorto.

La notte e il cosmo

Il simbolismo della notte, esaminato sotto diversi aspetti e applicazioni nei contributi precedenti, è universalmente diffuso e affonda le sue radici nella natura stessa del cosmo. L’alternarsi del giorno e della notte è parte indissolubile della vita dell’uomo, e senza di esso mancherebbe qualcosa di fondamentale nei suoi ritmi di vita.

Da questo ritmo cosmico prendono spunto molte metafore che riguardano gli opposti e che sono presenti in tutte le culture. Ad esempio quella tra la luce e le tenebre, che acquista un simbolismo particolare in senso antropologico, come espressione di dimensioni tipiche della vita spirituale, e anche in senso etico, come manifestazione delle forze opposte del bene e del male.

Così, anche le altre coppie cosmiche e antropologiche di opposti – come ad esempio il “positivo” e il “negativo”, il “maschile” e il “femminile”, il sonno” e la “veglia”, la “vita” e la “morte” e così via – non sono aliene da riferimenti a questo semplicissimo alternarsi tra giorno e notte, che fa parte essenziale della nostra vita quotidiana. 

La notte e la storia 

Se cerchiamo nella Sacra Scrittura come viene espressa questa realtà, ne ritroviamo molteplici manifestazioni. In particolare, oltre alle metafore comuni alle altre tradizioni culturali e religiose, la Parola di Dio ci rivela qualcosa non solo della natura del cosmo e dell’uomo, ma anche della sua esistenza storica concreta.

Se esaminiamo infatti la storia del popolo d’Israele, possiamo intravedere nel simbolismo della notte un paradigma fondamentale. Ne è esempio la “notte” della liberazione dall’Egitto, che richiama molti dei simbolismi già accennati e dà loro un significato nuovo: Dio libera il suo popolo, interviene come Salvatore nella storia dell’uomo.

A partire da questo dato sostanziale, si può osservare come il simbolismo spirituale legato alla “notte”, in quanto espressione di un certo tipo di relazione tra Dio e l’uomo, pervade la storia biblica.

Ne è esempio lo “schema cultuale tripartito” ravvisabile nei primi libri della Scrittura, la grande redazione storica che va dalla Genesi al secondo libro dei Re: in questo “schema” si ravvisa un momento di manifestazione di Dio o teofania (cf. Es 3), quindi uno di lotta di Dio contro il male (cf. Es 7-11), e infine l’instaurazione del culto o del santuario (cf. Es 12-13), che insieme è anche una nuova teofania e l’inizio di un nuovo ciclo.

Tutto ciò è figura del grande schema relativo al mistero pasquale: la manifestazione di Dio in Gesù Cristo, la Sua grande lotta in particolare al momento della passione e morte e infine la Sua resurrezione e l’effusione dello Spirito Santo, che segna la vittoria definitiva di Dio. In questo tipo di schema la “notte” è simbolo efficace del momento della lotta, con i vissuti a essa collegati: timore, angoscia, paura, sospensione, precarietà, ecc.

Da un certo punto di vista, quello del “buio”, come fase di passaggio tra due momenti di “luce”, il secondo dei quali è in certo senso di un livello superiore al primo, è uno schema ravvisabile anche nelle varie “notti” della storia dell’umanità, ed è analogo anche ai temi che sono al cuore della spiritualità del Movimento dei focolari: Dio Amore, Gesù abbandonato, l’unità.

Vediamo ora alcuni risvolti esistenziali, nella storia di ciascuna persona, di quest’approccio ontologico, teologico, psicologico e spirituale al tema della notte. 

Il compito evolutivo 

Anzitutto un’annotazione molto semplice e forse scontata: il venire alla vita di ciascuno è situato in un momento di “notte”, in diversi sensi.

Non siamo noi a scegliere di nascere: siamo nati senza sapere o decidere nulla al riguardo; le prime sensazioni le abbiamo avvertite nel segreto e nel buio del grembo della nostra mamma; quando siamo usciti alla luce non l’abbiamo deciso noi, ed è stato un “trauma”, tanto che il primo nostro atto vitale è stato il pianto, un pianto che aprendo i polmoni ha garantito la vita; e poi, da piccoli, le esperienze dei primissimi anni sono state per così dire immediate e irriflesse, tanto che sono andate in gran parte a costituire il bagaglio di ricchezza, di povertà e di mistero del nostro inconscio. Si potrebbe continuare…

Ma anche successivamente, durante l’arco dello sviluppo, abbiamo vissuto e siamo chiamati a vivere dei “passaggi necessari” attraverso dei momenti che potremmo definire di “notte”.

La crescita psicologica della persona infatti passa per delle tappe o fasi evolutive, ciascuna con delle dinamiche tipiche: il passaggio da una fase all’altra può avvenire solo a prezzo di un distacco da una sicurezza ormai raggiunta per inoltrarsi in una fase nuova, in cui si vive inizialmente tutta la propria insufficienza.

Si può dire che questi passaggi seguono la “logica” espressa da Gesù nel Vangelo: “Chi ama la propria vita la perderà; chi è pronto a perdere la propria vita… la conserva per la vita eterna” (Gv 12, 25). È una dialettica che appartiene non solo alla vita spirituale, ma anche allo sviluppo psicologico, come una “legge del perdere” necessaria per crescere, che ricorda molto da vicino quei momenti che chiamiamo “notte”.

All’inizio compiamo questi passaggi in modo completamente inconsapevole. Man mano che si cresce, diventiamo sempre più consapevoli, e quindi, autori responsabili del nostro sviluppo. 

Le fasi essenziali 

Alla nascita e nei primissimi mesi, il bimbo ha ancora una percezione molto confusa di sé e degli altri, in particolare della mamma: in questo stato di relativa indifferenziazione, quando sta bene, si pensa che viva una sorta di “beatitudine” in cui ogni bisogno sembra appagato (tanto che alcuni psicologi fanno risalire a questo periodo il “ricordo” ancestrale di uno stato di “Eden” primigenio).

Ma, verso i tre mesi di vita, comincia a riconoscere il volto umano e ad entrare in un rapporto con l’altro più definito e vivace, che gli permette di interagire di più e in modo più articolato: affinché questo sia, il bimbo percepirà in qualche modo di “perdere” quella sorta di “felicità totale” che gli sembrava a tratti di sperimentare.

Comincia tuttavia a sperimentare la relazione umana come il luogo in cui trovare un “nido” caldo e accogliente, preludio per una capacità di affezionarsi che si esprimerà in modo più differenziato nelle età successive. Egli vive ora una specie di fusione con l’altro, una sorta di simbiosi, da cui istintivamente non vorrebbe staccarsi per non perdere il calore umano che sperimenta.

Ma la sua crescita non si ferma: verso gli otto mesi comincia a percepire il volto materno come unico e irripetibile e ad avvertire la presenza della mamma (o di chi si prende cura di lui) come necessaria per la sua felicità. Inizia allora tutto un rapporto di affetto particolare, il cui “prezzo” però è nello sperimentare che la mamma non sempre è lì con lui, per cui si alternano stati d’animo opposti, di gioia e di scontentezza.

In seguito, con un’intensità e gradualità che varia lungo le diverse età dell’infanzia e dell’adolescenza, il bambino – e poi il ragazzo – è chiamato a confrontarsi con la presenza di “altri” nella sua vita: dapprima il papà, poi i fratelli e le sorelle, quindi i compagni, e così via.

Dovrà perciò condividere sempre più il suo “tesoro” – la mamma (e poi le altre figure significative di riferimento) – con altre persone: scoprirà con dolore che la mamma non può essere “tutta per lui”, e vivrà un appello a “custodire in cuore” il ricordo della sua presenza e bontà, anche quando ella non c’è o egli la percepisce non ben disposta, per esempio in occasione di un rimprovero o di una punizione.

È allora che può nascere in lui un amore più disinteressato come frutto del “perdere per amore”, in cui l’altro comincia a essere significativo in se stesso, e non solo per quanto può dargli. Si sviluppano allora alcune “sfumature” nella capacità d’amare che prima non esistevano: la gratitudine, la sollecitudine per l’altro, la capacità di empatia, il dolore quando si offende in qualche modo l’altro, e così via.

Per arrivare, tuttavia, a una maturità propria dell’età adulta ancora manca un passaggio: quello di essere protesi al bene dell’altra persona, indipendentemente da ciò che ne può tornare al soggetto.

Infatti, prima di quest’ulteriore svolta, si vuol bene all’altro, sì, ma ancora in modo parzialmente interessato: si cerca di far piacere, ma perché così è più facile che l’altro mi voglia bene; non si offende, ma per non perdere la stima dell’altro; ci si occupa di lui, perché si avrà il contraccambio; e così via, anche qui gli esempi potrebbero essere molti.

A un certo punto invece – che, come per le altre tappe, non è segnato da un momento “x” preciso, essendo piuttosto uno sviluppo che si attua nel tempo – si desidera per l’altro quel bene che si vuole per sé; si diventa capaci di donarsi senza attendersi nulla in cambio, per la pura gioia di donarsi; si è capaci di sacrificio in favore di altri, e si è contenti nell’intimo.

Ci si è staccati dal “desiderio di ricevere il contraccambio” come condizione del “dare”: anche questo è un modo di “perdere”, un essere disposti a una “notte” come un “non-ritorno” del dono di sé che si fa all’altro.

Jung, interpretando il sacrificio della Messa, analizza psicologicamente il “perdere” come dono, come sacrificio di sé, con la conseguente libertà da se stessi nell’essere capaci di porre la propria vita per gli altri. Evidenzia come l’io sia portato anche inconsciamente a considerare tutto in funzione di sé. Anche quando si dona è sempre nell’attesa di un ritorno.

Scrive: “Il dare abituale cui non corrisponde pagamento, sarà sentito come perdita, ma il sacrificio deve essere una perdita se si vuole essere certi che la rivendicazione egoistica non esiste più… Ma questa perdita intenzionale… non è una perdita, bensì un guadagno, poiché il sacrificare se stessi dimostra il possesso di sé (di ‘essere’)”1.

È chiaro che questo tipo di sviluppo non è affatto scontato: è invece passibile di blocchi, regressioni, crescite solo parziali che trascurano aspetti più o meno significativi della personalità. Ciò va inteso non solo e non tanto nel senso del possibile emergere di una patologia psichica, lì dove il compito evolutivo è pesantemente compromesso; ma soprattutto nel senso di una non piena maturazione della persona, che si ritrova con dei limiti inconsci, più o meno evidenti nelle diverse aree della personalità, nell’esercizio della propria libertà e responsabilità. 

Le età della vita 

Ma il compito dello sviluppo in realtà non si ferma mai: i vari periodi della vita umana riservano sempre nuove sfide, che chiedono di essere accolte e affrontate.

Ad esempio, come per l’adolescente è impellente il compito di raggiungere una propria identità, così altri momenti “critici” si affacciano lungo il cammino della persona ormai adulta.

È importante ad esempio il passaggio da una vita progettata personalmente, a un “cammino a due” che si condivide con un partner, con l’emergere di quella capacità d’intimità con l’altro/a che porta allo stabilirsi di una coppia e al nascere di una nuova famiglia.

Poi, con la nascita dei figli, sono suscitati l’impegno e la sensibilità verso la nuova generazione che cresce, con l’attenzione della coppia ormai rivolta anche “fuori di sé”, verso l’educazione dei bambini, poi ragazzi e adolescenti: si è allora chiamati a rivivere con loro e insieme al partner un po’ tutto il proprio cammino di crescita, incontrandosi ancora una volta in qualche modo con le antiche domande affrontate tanti anni prima.

E quindi i figli ormai grandi lasciano il nido familiare per prendere la loro strada, e la coppia si ritrova in un cammino a due da riscoprire e approfondire in modo nuovo: una volta “lanciati nella vita” i figli, ci s’incontra nuovamente con un “perdere”, per poi ritrovarsi nel nuovo ruolo di nonni.

E poi ci sono le età critiche, ad esempio i “fatidici quarant’anni”, con la domanda di senso sulla propria vita che emerge con forza: ormai non ci si aspetta più d’incontrare grosse novità, il cammino della propria esistenza ha ormai un binario abbastanza delineato.

Che senso ha la mia vita? Quali le mete raggiunte e quelle ancora da raggiungere? Soprattutto, dopo la mia esperienza su questa terra, cosa sarò chiamato ad affrontare: il nulla, un’esistenza nuova, una pienezza di vita?

È da queste domande, poste con chiarezza o anche più o meno volontariamente eluse, che affiora pian piano una sapienza di vita, o un’incertezza che si fa via via più acuta, col progressivo venir meno delle sicurezze puramente terrene intorno a noi: l’anzianità, la malattia, la morte sono sfide da cui “nullo homo po’ scampare”, per dirla con san Francesco d’Assisi.

Si vede allora come tutte queste età della vita sono caratterizzate da un “compito” da assolvere, con il richiamo a una necessaria “perdita” da vivere per raggiungere nuovi traguardi: la via è sempre quella di un progressivo decentramento da sé, per essere sempre più globalmente “dono” per gli altri. Anche di questo cammino è simbolo “la notte”. 

La questione dell’identità 

Emerge da questa visione, seppur estremamente sintetica, una ricerca di qualcosa di “stabile”, che nulla possa infrangere o disperdere, su cui valga la pena fondare la propria esistenza senza timore di ritrovarsi un giorno ad aver costruito sul “nulla”.

Ed è ancora una volta il simbolismo della notte ad aiutarci nel chiarire questa ricerca.

Dapprima infatti l’identificazione spontanea e immediata è col proprio corpo e le proprie abilità fisiche e qualità estetiche: benessere, bellezza, salute, armonia e soddisfazione interiore ed esteriore sono ricercate come dimensione essenziale della vita.

È evidente però che una ricerca d’identità unicamente a questo livello è valida e doverosa nelle prime età della vita, ma per una persona adulta esporrebbe a zone di fragilità enormi: quante sono le persone al mondo che si ritrovano a essere contemporaneamente sane, belle, valenti e ricche? E per quanto tempo? E quando passano gli anni e arrivano gli acciacchi della vita?

È palese che un ideale di questo tipo è di fatto improponibile per chi voglia “costruire sulla roccia” l’edificio della propria vita.

C’è così da andare al di là di quest’identificazione immediata a livello corporale, in un cammino che ancora una volta passa per un “perdere”, una “notte”, una “rinuncia” per aprirsi a una dimensione più profonda.

Questa ricerca di un’identità più profonda è cruciale nell’adolescenza ed è logico per la persona il trovarla nelle proprie doti e talenti, nell’espletare le capacità personali in questo o quell’altro ambito: sport, studio, lavoro, arte, amicizie, impegno sociale o religioso e così via.

Ancora una volta però, se questo è l’unico o il principale livello di identificazione di un adulto, rimane insufficiente ad affrontare le sfide della vita: quando arriva il fallimento, o l’impossibilità di esercitare e/o mettere in mostra i propri talenti, ci si ritrova improvvisamente impotenti, fragili, esposti, drammaticamente, o all’involuzione depressiva o alla rivolta contro tutto e tutti, contro la vita che ci ha irrimediabilmente delusi.

Il “saper perdere” la propria identità al livello di “ciò di cui sono capace, ciò in cui riesco…”, implica un’ulteriore fase di “notte”, perché si sviluppi un’identità stabile, in cui quella stima di fondo che la persona nutre verso di sé non possa essere attaccata e demolita dagli eventi della vita.

La persona adulta e matura arriva così a porre la propria stima non più in “quello che fa”, ma in “quello che è” e in “quello che vuole essere”: è questa un’identificazione a un livello che potremmo chiamare “ontologico”.

Qui appunto sono importanti due dimensioni: una molto reale e concreta, riguardante “chi sono io ora”; l’altra centrata invece su “chi voglio divenire”, dimensione ancora non in atto, ma altrettanto attiva nel proprio dinamismo psicologico.

Sono due dimensioni entrambe fondamentali: l’una senza l’altra farebbe sfociare la persona o nell’autosufficienza, dichiarata o mascherata da apparenze più o meno nobili, – “come sono ora mi basta…” e infine “basto a me stesso” – o nell’insoddisfazione cronica, del tipo “non riuscirò mai a cambiare me stesso e a crescere”.

È soprattutto a questo punto che entrano in gioco i valori su cui fondo la mia essenza e la mia esistenza, senza i quali mai raggiungerò un’identità matura.

Il cristiano sa che il proprio valore ultimo gli viene non da sé, ma da un Altro, da Dio che lo ama in misura infinita: Egli glielo ha dimostrato chiamandolo prima alla vita naturale – una vita a Sua immagine – e poi alla vita di grazia, conformandolo al Suo Figlio.

È questo insieme un “dono gratuito” e un “impegno che esige responsabilità”, in un cammino verso la vera mèta che è la piena conformazione a Cristo Crocefisso e Risorto.

Tra “dono di Dio”, di natura e di grazia, e “risposta dell’uomo” – che implica l’esercizio costante delle facoltà e virtù naturali e soprannaturali insieme – nasce e cresce sempre più come un “gioco d’amore”, in cui Dio chiama e richiama ogni giorno di nuovo la persona a una risposta d’amore sempre più personale, gratuita e universale. 

La questione della relazione 

Se vogliamo, è proprio questo “gioco” che ci dona il significato ultimo e più vero della “notte”.

Andare verso l’altro – e verso l’Altro – costituisce un’ulteriore e “ultima” notte: essa in maniera più chiara delle precedenti è tesa tra una dimensione di semplice sviluppo umano e una di crescita spirituale, e fa cogliere con evidenza come in realtà un vero sviluppo umano e una vera crescita spirituale non possono non coincidere nella vita concreta di una persona, pur rimanendo su piani distinti e non confusi.

Infatti è l’altro, la relazione con lui, che solo può darmi la reale dimensione di me. Ma perché ciò sia, è necessaria una “notte”, un esodo, un uscire da me e dalla mia realtà personale per andare verso l’altro e la sua realtà di persona.

Per poter cogliere la novità che l’altro è per me, ho bisogno di distaccarmi dai miei modi di pensare, di sentire, di comportarmi, per cogliere i modi di percepire, di ragionare, di reagire, di vivere dell’altro: solo mettendo temporaneamente tra parentesi le mie categorie, potrò comprendere quelle dell’altro.

Ho bisogno di entrare in un “luogo” che ormai non è più “mio”, ma non è neanche dell’altro, che non conosco ancora, in una sospensione necessaria: essa è preludio all’incontro, che potrà nascere in modo maturo solo dal mio vivere in modo maturo la mia sospensione.

È una fase che forse può durare un attimo, o forse anche anni in alcuni casi e per alcuni aspetti della persona; ma non può non esserci.

La “notte” allora è strumento di distinzione e insieme di comunione tra me e l’altro: se non ci fosse, tra noi, non potremmo essere e dirci diversi, e perciò neanche potremmo entrare in un cammino di reale comunione, che può essere sempre e solo tra persone distinte.

In modo ancor più reale e radicale, è una “notte necessaria” nell’incontro con Dio, l’Altro per eccellenza, il Totalmente Diverso da noi: è Lui il vero Altro, dall’incontro col quale possiamo ritornare in noi stessi e scoprire la nostra identità più autentica e vera.

Ed è così che scopriamo che il cammino della nostra notte è già stato percorso da un Altro, e da tanti altri, che hanno già affrontato la “loro” notte per poter giungere fino a noi, e sfiorarci in quelle corde del cuore e dello spirito che vibrano dentro di noi in maniera unica e irripetibile, dandoci il senso concreto del nostro “io” più profondo.

Si chiude così il “cerchio”: la “notte” intesa in senso spirituale è il culmine della “notte necessaria” a livello umano, e insieme ne è la spiegazione più profonda e completa, archetipo d’ogni notte umana, che si scopre così “luogo” e “grembo” di un evento dello spirito.

L’umano diventa il luogo del divino, in un’unità indissolubile tra spirito e carne che, pur non priva di tensioni e di possibili fraintendimenti, è e rimane immagine autentica dell’uomo perfetto, il Signore Gesù.

È Lui infatti l’uomo pienamente realizzato nell’amore, perché ha vissuto tutte le tappe del “perdere” e tutte le notti della vita umana: in particolare nel suo grido sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46) è il culmine e la sintesi d’ogni Sua “notte”, riepilogo ed espressione di ogni “notte” di ogni uomo di tutti i tempi.

E da questa “notte per antonomasia”, abbandonandosi con fiducia nell’abbraccio del Padre, è passato alla “luce senza tramonto” della Pasqua, ha trasformato ogni notte in giorno, ogni negativo in positivo, ogni morte in vita.

Proprio la “notte” diventa così l’esperienza-limite, in cui allo stesso tempo la persona sperimenta la propria finitezza, l’ansia, il dolore, e in cui da questa “morte” rinasce più se stessa, e si riscopre in comunione con Dio e con ogni uomo.

E anche noi riscopriamo il mistero della Pasqua scritto non più solo nei simboli naturali, quali l’alternarsi delle stagioni o la sorte del “chicco di grano”, ma anche nell’esistenza concreta e storica del nostro spirito: anche in essa dalla notte può nascere il giorno, dalla morte può rinascere la vita. 

 

NOTE

1 C.G. Jung, Il simbolismo della Messa, Bollati Boringhieri, Torino 1979, pp. 85, 87.

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