I migranti di Fuocoammare sbarcano a New York

La corsa all’Oscar del documentario di Gianfranco Rosi vincitore del Festival del cinema di Berlino comincia dalla Grande Mela. La tragedia del Mediterraneo approda nei cinema indipendenti e suscita sconcerto, commozione e una domanda ricorrente: “Io cosa posso fare”.
Rosi Ansa

La tragedia del Mediterraneo approda a New York con “Fuocoammare”,  il documentario di Gianfranco Rosi in corsa per gli Oscar. L’Istituto di cultura italiano ha ospitato il regista per un dibattito e un commento alle immagini crude e dolorose che hanno provato a raccontare il dramma di migliaia di morti annegati e di migliaia di sopravvissuti che al mare hanno affidato la loro sorte.

 

I migranti ripresi dalla videocamera di Rosi sono scampati a guerre, torture, stenti finché la loro traversata si è imbattuta nell’isola di Lampedusa, la porta dell’agognata Europa, che ben presto per tanti di loro è diventata un muro contro cui si sono infranti i loro sogni.

 

La comunità lampedusana composta da pescatori, medici, operatori della guardia costiera, negozianti e semplici cittadini è stata interpellata e trasformata da questo esodo senza sosta e Rosi ha voluto vivere per circa un anno in questo scoglio in mezzo al Mediterraneo per documentare e capire le ragioni di un’accoglienza che si è meritata la prima visita del papa e la candidatura al Nobel per la pace.

Il regista ha vissuto sull’isola quando gli sbarchi erano ridotti al lumicino e i migranti venivano trasferiti direttamente nel centro di accoglienza o in altre regioni italiane. Proprio per questo Rosi, nel suo “film -documentario” ha puntato sulla comunità lampedusana e sullo sguardo di due ragazzini divisi tra la normale quotidianità e la tragedia di questi volti che sbarcano sulla loro isola.

Samuele non ci vede, ha un occhio pigro, ma è l’ansia per la crescita in questo nuovo mondo che gli si materializza attorno che lo trova confuso, spaventato. “Il suo non vedere diventa lo schermo che lo risparmia dalla tragedia –spiega il regista interpellato dal giornalista Andrea Visconti, che ha guidato il dibattito.

“L’altra storia cruciale del film è quella del dottor Pietro Bartolo, il medico dell’isola che ha registrato con le foto e le cartelle le storie delle migliaia di vite guarite o identificate dalla sua professione. Lui non li ha mai pensati come numeri ma persone”. Ed è proprio questo medico il custode dell’Orso d’oro vinto a Berlino e che Rosi ha voluto regalare come omaggio all’isola.

Il set del documentario però non si è fermato lì. Rosi è salpato con la Guardia costiera per filmare in diretta un salvataggio, che recava con se i vivi ma anche tanti cadaveri.

“Incontrare la morte su quelle barche ti lascia un segno indelebile. Puntavo la videocamera su mani, piedi, volti. Erano morti soffocati dal fumo dei motori nella stiva. Un viaggio di appena 5 ore si era trasformato in immane tragedia. L’odore della morte e del mare  non si cancellano”.

Rosi non racconta, rivive quell’episodio e sul suo volto le tracce di quell’incontro sono presenti nella fronte corrugata, nell’emozione che rompe la voce. «Mi sono domandato se fosse giusto filmare quei cadaveri, se ne stessi realmente rispettando la dignità o se anche io non fossi caduto nel voyerismo e nella provocazione. Poi il comandante della Guardia costiera mi ha detto: " È’ tuo dovere filmare e far conoscere questa tragedia al mondo". Mi hanno confortato solo le considerazioni di Adorno di fronte ai cadaveri dell’olocausto quando ripeteva che lui aveva il dovere di mostrare quei corpi».

  “Non sono numeri quelli che sbarcano o annegano – prosegue il regista – portano con loro Dostoevskij, Papillon. Amano la letteratura come noi. Hanno le foto di famiglia, qualche ricordo e hanno impresso negli occhi quel misto di orrore e speranza che caratterizza ogni sfida”. La critica lo ha definito un film politico per tutte le implicazioni che le migrazioni hanno anche con il conflitto siriano e l’instabilità in tanti paesi africani, ma non è questo l’intento di Rosi.

“Volevo che la mia pellicola fosse una testimonianza, un pianto corale su una situazione inaccettabile. Voglio che il pubblico segua un processo di consapevolezza in cui ci sia posto per le domande profonde. Ed è quello che accade alla fine della proiezione, quando tanti mi si avvicinano e chiedono: ‘Io cosa posso fare?”.

Fuocoammare è prima di tutto un film urgente e necessario a capire la tragedia delle migrazioni. L’Oscar potrebbe riconoscere non solo l’impegno del regista ma la lezione di umanità che Lampedusa ha dato al mondo.

"Questo articolo è stato originariamente pubblicato su La Voce di New York"

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