I limiti del progetto Marchionne

Continuando a dar voce alle diverse sensibilità sulla vicenda Mirafiori, intervistiamo il filosofo del lavoro Alberto Peretti su lavoro, impresa e globalizzazione a partire dal’attualità di Adriano Olivetti
Fiat anni 50

2.735 a favore, 2.325 contro. Il risultato del referendum avvenuto alla Fiat di Mirafiori a Torino ha fatto riemergere anche un’altra “storia possibile” nella politica industriale in Italia, quella che ha come modello Adriano Olivetti, l’imprenditore scomparso nel 1960. Troppo utopista o fortemente in anticipo sui tempi? Riportiamo la sintesi di una più ampia intervista rilasciata dal professor Alberto Peretti, filosofo del lavoro e tra i promotori, assieme a Luigino Bruni, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni, del progetto Adriano Olivetti anno uno che, già dal titolo, indica una storia che non è finita affatto, anzi che comincia adesso.  

 

Tradizionalmente si contrappone il modello di Olivetti a quello gerarchico “sabaudo” della Fiat. Ma l’approccio sociale e comunitario sembra finito con il suo fondatore, mentre incalza la globalizzazione che impone altri standard competitivi. Rimane solo un interesse storico e nostalgico?  

«Occorre sottrarre Olivetti da una riduzione di tipo nostalgico archeologico. La sua impresa ha avuto un inizio e una fine, ma il pensiero sottostante a quell’esperienza è di una vitalità tale che possiamo riconoscerlo più attuale ora di quanto si potesse intuire negli anni Sessanta. Anzi sta ancora anticipando i tempi. La rilettura di Olivetti è oggi indispensabile per immaginare una rinnovata economia e ci libera da una visione riduttiva e immiserente della responsabilità sociale di impresa vista come strumentale e accessoria a logiche di puro profitto. L’Olivetti di Adriano, che nulla ebbe dell’irrealistica e velleitaria utopia, testimonia al contrario la concreta possibilità di un’economia capace di far convivere esigenze produttive, benessere materiale e fioritura dell’essere umano. La grande intuizione di Olivetti rimane quella di spiritualizzare l’economia e gli apparati produttivi. Le forze materiali non sono intese da Olivetti come fini a se stesse, ma sempre come strumento al servizio di “mete spirituali”». 

 

Sembra una cosa fuori tema. Che significa?  

«La domanda sottesa a tutta l’opera di Olivetti è questa: che cosa produce il nostro lavoro? Certamente ricchezza materiale, ma produce fondamentalmente esistenze, plasma le nostre vite. La domanda che nell’attuale dibattito economico rimane rimossa è: quale qualità di vita produce il lavoro? Viene bandita dal discorso corrente la domanda su quale genere di umanità scaturisca dal processo produttivo. È il dramma di un capitalismo che chiamerei “idiota”, perché concepisce l’atto economico ad una sola dimensione, quella materiale. Senza l’accento posto sull’essere umano diventa incomprensibile, ad esempio, la creatività ancora viva delle imprese italiane. Nell’impresa olivettiana il fine del lavoro non era più costretto dal tornaconto, ma si ampliava diventando occasione di avvaloramento del mondo. È il tema di un grande “patto sociale” che oggi viene dichiarato, ma che rimane lontano da quella prospettiva». 

 

Il patto sociale viene proposto ora per difendersi in un quadro di competizione internazionale… 

«La storia non va dove l’omologazione mediatica ci vuole far credere. Il futuro non è già scritto e non è da inseguire, piuttosto da immaginare. Certi comportamenti economici non sono dettati da fantomatiche leggi di natura. Un certo modo di vedere la globalizzazione deriva dall’acritica e stolida accettazione di un paradigma sociale. Diventa un indirizzo economico prevalente solo perché forze e interessi del capitale finanziario hanno interesse a imporla. La logica di una competizione retta dal mors tua vita mea, porterà l’Occidente a scomparire. L’Occidente, e l’Italia in particolare, deve proporre un modello di economia e di esistenza che scaturisce dalle sue grandi sorgenti: il pensiero greco, il messaggio cristiano, la tradizione umanistica e illuminista. Accodarsi a modelli di vita e di produzione che ci sono estranei è perdente anche in un’ottica di equilibri geopolitici. Significativo che la Cina stia aprendo istituti di cultura confuciana in Europa e nel mondo. Hanno compreso che l’atto economico è anche un atto culturale. Che la vera economia contiene un pensiero filosofico e antropologico».

 

Quindi di cosa c’è bisogno?

«Le tesi della competizione assoluta per prevalere non sono moderne, ma vecchie di secoli. Occorre un’economia rianimata da un rinnovato progetto del vivere. In questo senso Olivetti rimane esemplare e lungimirante: quando muore lascia un’azienda in attivo con oltre 30 mila dipendenti e filiali in tutto il mondo. Un prodotto che aveva il 30 per cento delle quote di mercato mondiali e il 70 per cento in Italia. E lascia soprattutto un mondo, interno ed esterno all’azienda, unanimemente ritenuto più giusto, più vero, più bello e più umano. Occorre avere il coraggio di dire che il “modello Marchionne” non offende soltanto gli operai, ma ancor più gli imprenditori, quelli veri. Sperpera capitale sociale, e cioè mina fiducia reciproca, toglie energie, idealità, fantasia e voglia di partecipazione. Queste sono vere e proprie “ricchezze economiche” che, in particolare per l’Italia, non si possono disperdere».   

 

Eppure solo nel 2006 lo stesso amministratore delegato della Fiat se la prendeva contro gli interessi della finanza internazionale, facendo notare che non aveva senso scaricare la competizione su chi si trova alla catena di montaggio, mentre ora ci troviamo con interi reparti produttivi che hanno espresso una maggioranza contraria al tipo di produzione proposto dall’azienda. Cosa è cambiato nel frattempo?

«Ciò che è avvenuto col referendum è assai interessante e può essere letto in maniera del tutto deideologizzata. Non si tratta di portare acqua a un certo radicalismo di sinistra, ma di riconoscere in quella risposta una forte manifestazione di dignità, di resistenza ad un ricatto espresso in modo esplicito e chiaro. È il segno della capacità di ritrovare un senso del fare che vada oltre la componente salariale. Dietro al “no” ci sono persone che hanno osato dire: il lavoro è più dello stipendio, più del profitto che ne possiamo ricavare. Persone che hanno riconosciuto il lavoro come un modo di stare assieme contrassegnato da un progetto di civile convivenza».

 

Un risultato da cui partire, sembra di capire.    

«È una buona notizia a fronte di un mondo appiattito sulle solite logiche di misera e miope produttività materiale. E fa ben sperare. Dovrebbe far piacere a tutti. Soprattutto a quegli imprenditori che vogliono lavorare con operai che nel loro lavoro mettano testa, cuore, spirito. Le aziende si governano non offendendo, ma esaltando le donne egli uomini che vi lavorano, recuperando una logica di cooperazione e di rispetto. Non è retorica, ma una strada obbligata se non vogliamo metterci ai margini dei grandi processi sociali e culturali che stanno fermentando in tutto il mondo. Si tratta quindi recuperare all’agire d’impresa una prospettiva di lunga durata, propria di chi investe sul futuro e sa guardare al mondo progettandolo per gli anni a venire. Di chi sa imporsi alle logiche della globalizzazione e non accodarsi ad esse. Questo è il tema decisivo».

 

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