I bambini “invisibili” nella città divisa

Il livello di ingiustizia raggiunto da una società si misura da come tratta i più deboli. L’assuefazione alla banalità del male mina nel profondo la coesione sociale. A colloquio con Riccardo Bosi, pediatra nel servizio sanitario pubblico a Roma
bambino

È uno degli interlocutori del laboratorio di Loppiano Lab “sull’impegno sociale nelle nostre periferie esistenziali”. Medico pediatra di Livorno, Riccardo Bosi si è stabilito da alcuni anni a Roma scegliendo di lavorare nelle periferie della Capitale dedicandosi ai minori rom e migranti. Socio della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, cura, tra l’altro, una rubrica di salute per Città Nuova. Ascoltarlo costituisce una terapia di risveglio da uno stato di torpore della coscienza.

Che impressione si ha a vedere la Roma del Giubileo, come anche di “mafia capitale”, dalle sacche di esclusione dove si avverte la necessità di una casa e del cibo?

«Chi vive l’emergenza –penso alle migliaia di eritrei di Baobab- o dentro al ghetto semplicemente “non vede” i cosiddetti Grandi Eventi.l loro tempo scorre al presente, è un universo parallelo, le emergenze per riuscire a campare sono tali e tante che non c’è tempo per altro.  E non sa cosa è Mafia Capitale, ma la subisce. Hanno bloccato gli appalti dei pulmini per portarei bambini a scuola, e Zineta –che ne ha 5 e un marito in carcere- passa tutto il suo tempo a portarli e riprenderli. Cosa vuoi che gli interessi del “Centro” e di Grandi Eventi?  Ma quando si lavora nelle periferie, se penso all’entusiasmo che vedo tra i volontari di Baobab, all’amicizia che nasce con questi eritrei e non solo o i “250 amici di Dino”, i volontari che da anni tengono su le mense nelle stazioni ferroviarie per i senza fissa dimora, finisce che “non vedi più nemmeno te cosa succede nella Roma del Giubileo”. La periferia è diventata Centro».

Sostieni nei tuoi interventi e, soprattutto con il tuo lavoro, che la coesione sociale in una città si può spezzare a cominciare dai bambini. Da cosa arriva questa consapevolezza?

«Lo penso perché i bambini sono una “periferia esistenziale” di per sé. Non hanno voce, assorbono senza strumenti per reagire ed esprimere il loro disagio. Sono minori anche nella concezione della politica. Quando dentro metropoli come Roma si riproducono, in scala ridotta, ingiustizie palesi alle diverse latitudini del pianeta, ecco che la partita della “disuguaglianza” comincia da qui».

Eppure questo scandalo non sembra affatto così evidente…

«Certo! Bambini dei quartieri “alti” e “bassi” vivono in universi paralleli. Gli uni non sanno che a pochi chilometri di distanza esistono bambini “invisibili”, (case occupate, bambini Rom nei campi nomadi, migranti, Centri profughi) che vivono in sovraffollamento, spesso senza privi di assistenza sanitaria, in condizioni igieniche disastrose. E non sono invisibili per ragioni sacrosante (oncologici, vittime di violenza), ma per vera “ghettizzazione”. Dentro un buco nero. La coesione sociale comincia a spaccarsi da qui per questo».

Con qual conseguenze?

  «In una città “divisa” non può nascere quel meticciato fecondo (“non la mia la tua cultura, ma la nostra diversa cultura”) che è il futuro della nostra convivenza che piaccia o meno a certe forze politiche»

Quali sono i problemi, le patologie che emergono nei bambini che vivono in queste condizioni di esclusione? 

«Facciamo chiarezza da ogni equivoco: I migranti, e tanto meno i loro bambini, non hanno patologie infettive pericolose. Al termine del loro viaggio migratorio possono manifestarsi patologie contratte nel paese di origine, ma gravi solo per loro, e gestibili da noi. Così esiste l’effetto del migrante che arriva sano ma si ammala nelle nostre città

E questo vale anche per questi bambini “delle periferie esistenziali” di Roma?

«Si. Hanno le stesse patologie dei loro coetanei, ma peggiorate dalla situazione di povertà. Le malattie dei bambini Rom o delle case occupate dimostrano quanto i “determinanti sociali della salute” pesino enormemente anche qui da noi».

Cosa sono i “determinanti sociali della salute”?

«Si tratta delle  condizioni socio-economiche “generali, culturali e ambientali” che influiscono sullo stato di salute: carestie, basso reddito, guerre, disastri ambientali, analfabetismo, degrado abitativo, mancato accesso all’acqua). Di fatto “i push factors” per cui 60 milioni di richiedenti asilo stanno rischiando il loro viaggio migratorio».

Puoi fare degli esempi?  

«Ti posso citare il caso di Luminitsa, 8 anni. Arrivata nel nostro ambulatorio con dolori addominali. Sapevano che aveva il diabete ma “sai dottore, viaggio troppo lungo, ora siamo in sei in una tenda dentro al bosco, e non soldi, per comprare la medicina”. Il collega diabetologo del Pronto soccorso l’ha tirata fuori per miracolo dalla sua cheto-acidosi. Oppure la storia di Nicu, 12 anni: “sai, dottore, lascio la scuola…, perché i compagni dicono che puzzo” è vero, ma sta in una baracca senza bagno… Ma che sconfitta! La scuola è tutto a questa età!  Per Luminitsa è ovvio, il nodo non è il diabete, ma l’intreccio tra carenza abitativa, analfabetismo, povertà e mancanza di rete sociale che poteva finire in una tragedia.  Per Nicu non sarà la mancanza di acqua che fa morire milioni di bambini di gastro-enterite, certo! Ma il suo “non accesso all’acqua” è diventata la sua “morte sociale”». 

Davanti alle dimensioni crescenti di questi disagi, le ASL hanno ancora risorse da dedicare ad un servizio pediatrico per rom e migranti? 

«Le ASL hanno spazi dedicati a fasce fragili della popolazione, come quello dove lavoro io. Una equipe per bambini Rom e migranti.  Esistono realtà –vere eccellenze- come l’INMP che pure è una struttura pubblica, con ambulatori dedicati e protocolli sanitari preziosi per area migrazione e povertà (SIMM, o GNLBI della SIP). Risorse: poche, molte? Se vedo gli sprechi, (23 milioni del Piano Nomadi spesi dappertutto tranne che per “l’inclusione sociale dei Rom”) dico: meglio farsi altre domande. E cioè come poter agire su quelle “determinanti sociali” e favorire l’accesso ai servizi sanitari pubblici già esistenti».

Quindi è accettabile il livello della sanità pubblica?

«La qualità dell’offerta di salute pediatrica in Italia e a Roma è ottima, a mio giudizio. Il problema è accedervi, a quella sanità! E’ una questione di disuguaglianza di accesso. Torna il discorso di prima! Quando nasce un neonato rom o di una casa occupata (grazie a punti-nascita di livello), il suo rischio sanitario è pari ad altri bambini. Ma appena ritorna a casa (se ce l’ha) e si ritrova nel sovraffollamento abitativo, fumo passivo, topi e cimici, fogne a cielo aperto e mancanza di servizi igienici, è chiaro che saranno più probabili patologie scomparse o tenute sotto controllo. Per quello esistono strutture dedicate per loro».

Ma queste strutture non sono, in fondo, una  specie di segregazione? 

«Dipende. Visto come vanno le cose direi di no. Se penso a cosa diceva Don Milani “non c’è peggiore ingiustizia che fare parti uguali fra diseguali” direi di no… E se vedo una Roma che deve affrontare emergenze spaventose –penso a Baobab, dove sono passati 25.000 eritrei in pochi mesi- se non operassero in modo straordinario e “fortemente dedicato” migliaia di persone, associazioni, gruppi di volontariato e organizzazioni internazionali come “Save the children” che lo fa dal 1919…, la Caritas – area sanitaria, MEDU, Comunità di Sant’Egidio, Opera Nomadi e molte altre sarebbe il tracollo.  Perciò è bene usare i Camper per andare a intercettare quei bambini invisibili. Anche ne salvassimo uno solo questo vale più di ogni bella teoria. Bene anche le campagne vaccinali straordinarie. Importante comunque inventarsi momenti aperti, di incontro con la città. Associazioni e organizzazioni organizzano momenti del genere e potrei raccontare stante storie bellissime come l’azione che compiei il mio amico e collega Andrea Satta, conosciuto anche come voce del gruppo musicale dei Tetes de Bois. Poi, però, riportare quei bambini e quei genitori nei consultori “normali”, alla medicina e alla pediatria di base, strutture nate proprio per presidiare il territorio e offrire cure primarie a tutti.Parlavi di soldi, di risorse… Certo che vanno investite in eccellenze, ma senza dimenticare la giustizia sanitaria minima!»  

Come si potrebbe far funzionare meglio una struttura pubblica per le fasce più fragili?

«Bisogna creare come un “piano inclinato sanitario”, investire in mediatori culturali in campo sanitario (come fa lo INMP),formare gli operatori. Senza una strategia elastica, mirata, l’accesso per le fasce più povere resta sulla carta. Il lato umano non è mai secondario: se si apre la finestra dopo la visita ad un bambino perché è maleodorante, e loro se ne accorgono –a me poi lo dicono- il danno è gravissimo! Bisogna saper fare “medicina trans-culturale”, etno-pediatria (la SIMM ha esperienza enorme) che tenga conto della provenienza geografica, della dimensione antropologica e delle tradizioni sanitarie. E poi ancora molti accorgimenti “tecnici”, come le dimissioni ben fatte, per restituire dignità, prescrivere solo farmaci essenziali e meno costosi. Ma sono solo accenni da approfondire»

Dopo la fase pediatrica,  di cosa hanno bisogno questi ragazzi che vivono  nei margini ? 

«Una infanzia lunga, una scolarizzazione adeguata che è fondamentale , l’accesso a tutte le opportunità culturali, sportive, di socializzazione, -dal parco giochi agli oratori- spettacoli, teatro, poter viaggiare, vedere Roma… sono opportunità uniche che i bambini possono o non possono avere. Questi bambini “nei guai”, periferici, nel ghetto non le hanno! E allora, al momento di affrontare il mondo, tutto sarà più difficile. Se penso ai bambini Rom, dentro la loro Terra di Mezzo eternizzata, in un limbo giuridico-antropologico sovrapposto a ferite antiche, metaforicamente affacciati alle finestre senza mai scendere se non trasportati con pulmini –senza poter dire “vuoi venire da me a fare i compiti, a veder casa”?  Accogliere questi bambini –scuola, sanità, parchi giochi- con tutti gli accorgimenti possibili, cercare di conoscere la loro storia, (Quella dei Rom è sparita dalla storiografia europea, chi sa che hanno subito l’Olocausto? ) e fornire per tempo tutte quelle opportunità culturali che non hanno». 

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