Hong Kong, conferme e sorprese

Le consultazioni popolari nell’ex-colonia britannica vanno nella direzione di un’integrazione libera con la madrepatria
Hong Kong

Le elezioni a Hong Kong hanno dato un risultato previsto da tanti, ma con prospettive interessanti e per certi versi inattese. Tra i 70 seggi del Consiglio legislativo (il Parlamento di Hong Kong) 30 sono andati ai democratici, ai localisti e ai radicali, mentre 40 sono stati quelli ottenuti dai gruppi pro-Pechino. Per i democratici si tratta indubbiamente di una vittoria, perché hanno ottenuto un numero di posti sufficiente per avere il potere di veto e bloccare le leggi o i budget governativi che non corrispondono alla loro visione.

 

Sul giornale locale South China Morning Post il titolo riflette la grande novità dell’elezione: «I voti hanno cambiato il paesaggio politico della città – è scritto –. Hong Kong ha scelto un nuovo tipo di localisti e nuove facce di giovani per il Consiglio legislativo, portando politica e governance della città in acque inesplorate». In ogni caso l’opinione pubblica è soddisfatta del fatto che il 52 per cento dei votanti ha partecipato all’elezione, un numero storico mai raggiunto finora.

 

Il partito più importante rimane tuttavia il Dab (Alleanza democratica per il progresso di Hong Kong), insieme con gli altri partiti pro-Pechino, con un totale di 40 seggi. Hanno dovuto sudare le proverbiali sette camicie per ottenere la maggioranza dei posti in Parlamento. Hanno vinto perché «hanno saputo come lottare», così hanno dichiarato. Anche Pechino è rimasta soddisfatta del risultato, perché si è riusciti a bloccare l’opposizione ed escludere gli indipendentisti.

 

Il voto ha offerto non pochi stimoli a chi vuole cambiare o migliorare la situazione sia politica che economica e sociale di Hong Kong. Anche Pechino sembra raccogliere i segnali e le esigenza della popolazione. Ad esempio, l’anno prossimo vi sarà l’elezione per l’Amministratore esecutivo di Hong Kong e Pechino sta pensando di non ancorarsi all’attuale amministratore, che non gode dell’appoggio popolare; sembra così che stia pensando di aprirsi anche ad altri candidati più graditi alla gente. Altro esempio: sulla copertina dell’ultimo numero del Time c’è la foto di Tsang Yok Sing con il titolo “La speranza per Hong Kong”, cioè l’uomo che vuole sanare la frattura tra la città e i suoi padroni di Pechino. Tsang vuole in effetti far capire al governo centrale cinese che il sistema di Hong Kong scomparirebbe se i valori costitutivi dell’ex-colonia britannica venissero eliminati: la libertà di espressione e di associazione, oltre che la certezza della legge. Questo è il messaggio di Tsang a Pechino.

 

Naturalmente le due parti devono in qualche modo avvicinarsi. In realtà l’esperienza è riuscita nel 2010 – la cosiddetta “riforma politica” –, con una serie di consultazioni, negoziati e compromessi cominciati nel 2009, grazie anche al contributo dei democratici. In questo modo Hong Kong ha cominciato un cammino con il consenso del Congresso del popolo di Pechino. Si può dire che è stato de facto un referendum sull’aumento degli elementi democratici nello spirito e nella linea della “Legge fondamentale” di Hong Kong, la sua mini-costituzione.

 

Dall’esperienza del 2010 si è costatato come Hong Kong abbia la capacità di presentare le sue esigenze a Pechino. E in questi ultimi anni Pechino sta imparando, anche dalle crisi con il Tibet, Xinjiang e Taiwan, che non può governare dalla capitale come era avvenuto nei secoli ad opera delle dinastie imperiali: ora bisogna dialogare. Come ha ricordato recentemente papa Francesco, la parola cinese per “crisi” è costituita di due parti, “rischio” e “opportunità”. In questi ultimi trent’anni la Cina, seppur lentamente e non completamente, ha avviato alcune riforme fondamentali e ha deciso di aprirsi sempre di più all’esterno. Ogni crisi obbliga Pechino ad aprirsi un po’ di più. Le elezioni di Hong Kong potrebbero essere un’altra opportunità, oltre che un rischio.

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