Guerre, petrolio ed equilibri strategici

Una mappa del pianeta, a partire dalle sue fonti energetiche, per capire le ragioni dei conflitti nel mondo.
Caso petrolio

Se l’energia è essenziale per lo sviluppo economico, quella da combustibili fossili sta rivelandosi micidiale per il pianeta: lo dimostrano lo scioglimento accelerato dei ghiacci dei poli, gli incendi in California e in Australia così vasti da non poterli più contenere con elicotteri e canadair, che richiedonoil ricorso ai lanci di acqua dai jumbo jet, e le tempeste di vento che abbattono intere foreste e alzano onde che distruggono le coste.

Non è però facile fare a meno dei combustibili fossili: la molta energia rinnovabile oggi prodotta non va a sostituire quella di origine minerale, perché deve supplire alla sempre maggiore richiesta energetica, soprattutto nelle nazioni asiatiche, in crescita come popolazione e come tenore di vita.

Si giunge alla contraddizione della Cina, dove mentre si inaugura un enorme aeroporto a totale energia verde e si eccelle nei trasporti con treni veloci, come accade anche in India continua ad aumentare il consumo di carbone.

Il petrolio è quindi ancora protagonista, con ha una produzione  in leggera crescita: se ne estraggono 94,5 milioni di barili al giorno, con riserve per altri 49 anni. Il greggio continua a orentare le logiche della politica internazionale, in particolare da quando si è scoperto come nuovo metodo di estrazione il fracking, che negli ultimi dodici anni ha accresciuto la produzione degli Stati Uniti da 6,7  a 17.2 Milioni di barili giorno.

L’irruzione del petrolio da fracking ha creato una eccedenza produttiva, che in un libero mercato avrebbe dovuto indurre una riduzione di prezzo, come era successo negli anni ’80, quando il prezzo era crollato a 7 dollari al barile: allora il crollo aveva privato molti paesi in via di sviluppo delle entrate loro necessarie ed aveva colpito soprattutto l’URSS, che basava la sua economia su enormi entrate di valuta da esportazione di materie prime; quel crollo aveva creato le condizioni economiche del suo disfacimento.

Quando negli anni scorsi a causa del fracking il prezzo del petrolio era sceso da 60 a 25 dollari al barile, il presidente Putin, temendo il ripetersi della storia, per la prima volta aveva proposto ad una nazione fino ad allora non proprio amica, l’Arabia Saudita, terzo grande produttore mondiale, un accordo di riduzione delle produzioni che riportasse il prezzo ai 65 dollari del presente.

Nessun accordo di riduzione è però concepibile con le aziende di estrazione statunitensi, che in questi anni si sono grandemente indebitate per aumentare in modo parossistico la produzione, 1,7 milioni di barili al giorno in più solo nell’ultimo anno; toccava al loro presidente amico, Trump, trovare un mercato per il loro petrolio, evitando che fallissero in una nuova enorme bolla finanziaria.

Trump ci ha provato, cercando di convincere, inutilmente, la Merkel a non raddoppiare il gasdotto North Stream verso la Russia ed acquistare invece il suo gas di fracking liquefatto;  probabilmente ancora ci sta provando, rendendo difficile eliminare le sanzioni all’Iran, che avrebbe riserve per 124 anni ed oggi produce il 22% di petrolio in meno di dodici anni fa; probabilmente non farà neppure molto perché in Libia riprenda la produzione del grezzo dal giacimento El Sharara, bloccata  in questi giorni da Haftar. La Libia ha riserve per 116 anni,  la scomparsa dei trecentomila barili giorno prodotti da quei pozzi aiuta a mantenere alto il prezzo internazionale.

 Paesi Produttori del 87 % del Petrolio del mondo (*) Produzione 2019           (MMbbl/g) Variazione % rispetto al 2018 Riserve in anni di produzione
USA 17.2 1.8 10
Arabia Saudita 12.0 -0.3 61
Russia 11.5 0.1 19
Canada 5.3 0.1 87
Iraq 4.8 0.2 84
Emirati 4.0 0.2 67
Cina 3.8 0.1 18
Iran 3.4 -1.0 124
Kuwait 3.0 0.1 94
Brasile 2.9 0.2 12
Nigeria 2.1 0.0 48
Kazakistan 2.0 0.0 42
Qatar 1.8 0.1 38
Norvegia 1.7 -0.2 13
Algeria 1.6 0.0 21
Angola 1.5 -0.1 15
Libia 1.1 0.1 116
Venezuela 1.1 -0.5 775
Azerbaigian 0.8 0.0 25
Ecuador 0.5 0.0 43
Totale 82.0 0.72 54
Totale mondo 94.5 93.8 49

La tabella (Worldwide Report  di Oil & Gas Journal, Dic 2019) mostra altri Paesi produttori in difficoltà: l’abbandono grazie a Maduro dei tecnici delle grandi compagnie petrolifere ha ridotto del 67 % la produzione del Venezuela, che avrebbe  riserve per 775 anni. La Nigeria, che avrebbe un gran bisogno di entrate per la popolazione in crescita, negli ultimi dodici anni ha perso il 20% della produzione.

In conclusione i potenti sfruttano la geopolitica per imporre sul mercato, al prezzo che decidono, le loro materie prime, anche quando questo diventa scandaloso: nei dodici anni in cui il mondo ha aumentato il consumo di petrolio del  13 %, gli Stati Uniti hanno aumentato la produzione  del 154%, senza porsi il problema che così in dieci anni si bruciano le intere riserve del paese e si inquina il territorio, provocando terremoti e grandi emissioni di metano, venti volte più nocivo dell’anidride carbonica.

Quello che poi indigna è la cancellazione da parte di Trump delle leggi di Obama per la riduzione delle emissioni di metano e ancora di più il suo intento di cancellare a livello federale quelle ambientali della California, che obbligano i costruttori di automobili  a severi adeguamenti nelle emissioni, poi utilizzati in tutta la nazione.

Quanto sopra detto, in questi giorni di grandi eventi internazionali, non ci porta a sperare molto da interventi utili alla risoluzione delle crisi libica, iraniana e venezuelana, né dalla Russia né dagli Stati Uniti, né dall’Arabia Saudita: risolverle significherebbe aumentare l’offerta nel mercato del petrolio, a scapito di quello di loro produzione.

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