Guerra in Ucraina, i giorni di Caino. Intervista ad Antonio Maria Baggio

La guerra in Europa. Continua il dialogo aperto ed esigente davanti alla tragedia in corso in Ucraina. Prima parte di un'intervista ad Antonio Maria Baggio, professore ordinario di "Filosofia politica" nell’Istituto Universitario Sophia. Vedi il focus sul dilemma della fornitura di armi
Guerra in Ucraina (Ukrainian Presidential Press Office via AP)

La guerra in Ucraina ha aperto un conflitto nella coscienza personale di ognuno e pone domande ineludibili sulle scelte politiche prese dal nostro Paese, con l’esecutivo Draghi e il voto prevalente del Parlamento, che ha deciso non solo di sostenere la popolazione costretta fuggire ma anche di inviare armi al governo di Kiev. Il dibattito che si è aperto sui media e nell’opinione pubblica attraversa e divide ogni ambiente. Il dilemma non è, infatti, affatto astratto e retorico ed esige la capacità di rendere ragione della posizione di ognuno così come cerchiamo di fare su Città Nuova con articoli e interviste.

Sulla questione abbiamo quindi posto alcune domande ad Antonio Maria Baggio, professore ordinario di “Filosofia politica” nell’Istituto Universitario Sophia, nonché direttore del Center for Research in Politics and Human Rights e presidente della Fondazione Toni Weber

Che risposta si può dare davanti alla tragedia in corso della guerra in Ucraina che sfugge a tutte le previsioni di esperti di geopolitica e di strategia militare? La scelta di Putin è quella di un pazzo imprevedibile come dicono alcuni oppure esiste una logica nella sua azione? Si tratta di una nostalgia dell’Urss o del grande impero zarista?
Nel dicembre 1989 ebbi a Mosca vari incontri con intellettuali, sia docenti universitari, sia funzionari di partito o dirigenti delle sue attività culturali. In Europa occidentale si discuteva molto del processo di ristrutturazione sia della visione socialista che delle istituzioni dell’Unione Sovietica lanciato da Michail Gorbacëv. Io mi aspettavo di incontrare un dibattito analogo, cioè interno ad una visione marxista, che tentasse di esplorare le possibilità di rinnovamento della prospettiva socialista. Mi accorsi invece che esisteva, sì, l’interesse per gli effetti pratici, economici ed istituzionali della perestrojka, per le possibilità che si aprivano a forme di opposizione politica e di libera espressione del pensiero, ma il marxismo, per l’élite, contava già molto poco, non aveva più il ruolo di prospettiva culturale ed ideologica unificante. Si affacciava invece, emergendo da lontane e profonde radici,  un forte senso identitario russo, che reagiva con irritazione alle manifestazioni, allora già evidenti, di tendenze autonomiste da parte delle Repubbliche federate. Queste, di lì a due anni, con lo scioglimento dell’Unione Sovietica (dicembre 1991), avrebbero raggiunto una piena sovranità.

In quel momento Vladimir Putin lascia i servizi segreti e inizia una carriera politica che lo porterà, nel giro di otto anni (1999), a divenire Primo ministro. Nei successivi vent’anni di potere Putin  elimina le aperture democratiche iniziate da Gorbacëv e El’cin e ricostruisce le strutture e le dinamiche di uno Stato totalitario quale era l’Unione Sovietica: l’ex direttore dei servizi segreti dispiega la propria mentalità di controllo liberticida su una dimensione continentale. Non prendiamocela col popolo russo per l’invasione dell’Ucraina: i russi sono le prime vittime del loro sistema. “Diventato presidente”, ha scritto la giornalista Anna Politkovskja, “Putin – figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese – non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione” (La Russia di Putin, Adelphi 2005, p. 5). La Politkovskaja, nei suoi articoli, aveva denunciato il regime di terrore instaurato dall’esercito russo durante l’occupazione della Cecenia; venne assassinata e il suo corpo fu trovato nell’ascensore del suo condominio il 7 ottobre 2006.

L’ideologia del nuovo regime non è più il marxismo-leninismo, ma la visione di una Grande Russia, culturalmente e istituzionalmente imperiale, con forti radici religiose: Putin stesso ostenta accuratamente la propria partecipazione ai riti della Chiesa Ortodossa. La nuova miscela politica-nazionalistica-sacrale – che non ha nulla di realmente cristiano – funziona come ideologia esattamente come il socialismo in epoca sovietica. Il nemico non è più il capitalismo, ma l’Occidente. È un nemico inteso – alla scuola di Lenin – come nemico assoluto. Nel recente discorso del 24 febbraio, in cui dichiara l’inizio della “operazione militare” in Ucraina, Putin descrive il “blocco occidentale” come un impero costruito dagli Stati Uniti modellando gli  Stati europei a propria immagine, un impero che “minaccia i nostri valori  per imporci i suoi e corrompere la nostra gente”.  È la lotta – tipicamente ideologica – del “puro” contro l’“impuro”.

La strategia di Putin appare strettamente legata a questa visione. All’interno delle Repubbliche ex-sovietiche ci sono presenze di popolazione russa, di diversa entità.  I russi sono minoranze trascurabili in Stati quali il Tagikistan e l’Azerbaigian, ma il loro numero è invece molto consistente all’interno delle Repubbliche Baltiche, della Bielorussia, dell’Ucraina. È su questa base che Putin costruisce la sua visione di recuperare alla Russia gli Stati che si sono emancipati dall’Unione Sovietica. Poi, è vero anche che, sul piano strategico, ha bisogno di Stati-cuscinetto tra la Russia e i Paesi-Nato; e ha bisogno di popolazione russa, data la grave crisi demografica della Russia, che pone problemi rilevanti, oltre che all’economia, anche per il mantenimento delle dimensioni numeriche delle forze armate».

Pensavamo di aver superato il concetto di guerra giusta nell’era dell’apocalisse nucleare grazie alle continue prese di posizione di Francesco…

Molto prima del papato di Francesco il Catechismo della Chiesa Cattolica aveva già preso le distanze dal concetto di “guerra giusta”, usando l’espressione, riferita al passato, “dottrina detta della guerra giusta”. Il Catechismo presenta alcuni elementi che effettivamente discendono, re-interpretati e attualizzati, da tale tradizione, ma evita di giustificare in alcun modo la guerra in quanto tale. Il Catechismo espone invece le “rigorose condizioni di legittimità morale”  che possono giustificare “una legittima difesa con la forza militare”. La difesa che il popolo ucraino sta opponendo  all’invasione militare rientra pienamente in tali condizioni.

Una di esse, che in questi giorni è stata talvolta messa in discussione, raccomanda che “il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare”(Catechismo, N° 2309). Sembrerebbero apparentemente rifarsi a tale condizione  le opinioni di coloro che pensano che gli ucraini, resistendo all’invasione, “provochino” più danni di quanti ne farebbe la mera accettazione dell’invasione. E, in questo senso, viene detto, sarebbe da condannare anche l’aiuto prestato dai Paesi, quali l’Italia, che hanno fornito agli ucraini armi per difendersi. Ritengo che si debba prendere atto che gli ucraini hanno valutato liberamente quale fosse, per loro, il male più grande e hanno deciso di resistere: dalla Seconda guerra mondiale ad oggi abbiamo potuto costatare che cosa possa fare un esercito occupante, dalla Germania sconfitta, al Vietnam, alla Cecenia… Non è stata la resistenza degli ucraini a trasformare l’invasione russa  in un’azione criminale: questa lo è stata fin dall’inizio, nella progettazione, nell’esecuzione, nella giustificazione ideologica, perché è una guerra di aggressione. L’aiuto agli ucraini può essere dato in vari modi, sia con il soccorso e la cura, sia con l’ospitalità, sia con il combattimento armato che difende il debole aggredito: ciascuna di queste scelte che riflettono diverse opinioni e disposizioni, se fatta in coscienza, ha la propria legittimità etica.

 

Continua qui la seconda parte dell’intervista

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