Guerra santa? Scopo delle religioni è la “pace santa”

Politica internazionale e vita delle religioni sono indissolubilmente intrecciate. L’intervista di Emanuele D’Onofrio (agenzia Aleteia) a Pasquale Ferrara su: Politica inframondiale e Religioni e relazioni internazionali, editi da Città Nuova. Domani la presentazione a Roma presso la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea
persecuzione cristiani iraq

Per anni la politica e i politologi se ne erano dimenticati; oggi le emergenze internazionali, ma non solo quelle, tornano a ricordarci come la religione abbia un ruolo fondamentale nell’equilibrio tra le società. “In realtà le religioni, in quanto tali, non sono mai state assenti, nei fatti, dalle relazioni internazionali e dalla politica mondiale; piuttosto, esse sono state messe tra parentesi”: così si legge nelle prime pagine di Religioni e relazioni internazionali. Atlante Teopolitico, uno dei due volumi in uscita – l’altro è La politica inframondiale. Le relazioni internazionali nell’era post-globale – pubblicati entrambi da Città Nuova e di cui è autore il prof. Pasquale Ferrara, attualmente Segretario Generale dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze e docente alla LUISS, che in passato ha svolto molti incarichi diplomatici all’estero.

I due volumi – che saranno presentati a Roma martedì 25 novembre (Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, ore 18.30) alla presenza dell’autore, di Massimo D’Alema e di altre personalità del mondo istituzionale e accademico – invitano a ragionare nei termini di una “politica interna mondiale” dove le azioni e le scelte politiche, e quelle anche nel mondo della religione, hanno ripercussioni spesso planetarie. Emanuele D'Onofrio, per Aleteia, ha incontrato l’autore, Pasquale Ferrara.

Cos’è l’era post-globale?
«Non ho trovato una definizione migliore di questa, forse provvisoria, per descrivere una realtà del mondo in cui troviamo una resistenza alla globalizzazione. Rispetto agli anni Novanta in cui la globalizzazione liberale era vista come una soluzione, oggi in molti paesi non solo occidentali questa è vista come una fonte di problemi, non solo da un punto di vista economico ma anche da quello di un unico paradigma politico culturale che viene regolato dalla globalizzazione di matrice occidentale.

Quindi “post-globale” significa innanzitutto la resistenza crescente a questo processo, nel quale la globalizzazione paradossalmente invece di unificare diventa sempre più un fenomeno conflittuale, e in secondo luogo la reazione identitaria che provoca e che suscita in molti paesi forme esclusiviste dell’identità, se non di vera e propria diffidenza, a tutto quello che è estraneo».

Potere e governance, cosa è cambiato oggi rispetto all’era pre-Muro?
«Innanzitutto si è avuta una diffusione di potere. Ovviamente prima del 1989 c’era una concentrazione di due poli egemonici, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che di fatto incarnavano anche due modelli economici, politici, sociali e culturali. Con la fine della guerra fredda e la frantumazione dei due blocchi si è avuta la dispersione del potere a livello mondiale. Ma bisogna anche stare attenti su questo: in realtà il paradigma del potere purtroppo non è cambiato, cioè non è che il fatto che il potere si sia distribuito tra varie entità abbia provocato una trasformazione di questo concetto.

L’esempio ne è la transizione dal G8 al G20, che è stato creato senza nessun tipo di legittimazione democratica a livello internazionale: a un certo punto le potenze dominanti hanno deciso di allargare la governance ad altri Paesi. Questo è stato fatto sulla base di parametri che non rispondono a criteri democratici. Il concetto di egemonia rimane invariato; soltanto, invece di essere bipolare è multipolare, ma non esiste ancora un concetto di democrazia internazionale che consenta una partecipazione alla presa delle decisioni.

L’esempio che io sempre faccio è ancora quello del G20 e la votazione dell’agenda internazionale che è stata caratterizzata dalla questione del terrorismo internazionale: sicuramente questa è una questione problematica e va affrontata, ma è molto difficile spiegare a diversi paesi africani che il terrorismo transnazionale sia l’emergenza numero uno quando c’è un problema di sicurezza alimentare e un problema di pandemie come l’ebola che minacciano molto più concretamente l’esistenza di molte società».

Ma la religione è strumento di dialogo o di divisione?
«Io partirei da un cambio di terminologia. Oggi mi ha molto impressionato che nel dibattito politico e nella pubblicistica si parli molto di “guerra santa”. Io credo che in realtà le religioni nella loro essenza abbiano un ruolo diverso, che è quello di costruire la pace santa: questo è uno dei motivi fondamentali del libro. Le religioni se riportate alla loro natura originaria hanno una natura universalistica ed inclusiva, tutto il contrario di quello che cercano di fare i vari fondamentalismi, per la verità non solo islamici dato che ce ne sono anche in ambito occidentale e cristiano.

Dobbiamo sgombrare il campo dal luogo comune secondo il quale le religioni sono necessariamente prone al conflitto, e anzi aggravano i conflitti in corso. In molte situazioni l’unico modo per ritrovare il senso di un patto internazionale di convivenza è quello di utilizzare i canali che ad esempio forniscono i leader religiosi con i loro messaggi di pace. Pensiamo in questi giorni a tutti i pronunciamenti di tutti i leader religiosi per denunciare la distorsione che l’Isis sta facendo dell’Islam.

Nel libro si elencano tutta una serie di situazioni nelle quali le religioni hanno dato un contributo alla governance mondiale, ad esempio con le riunioni parallele in occasione dei G20 o dei G8 per esaminare l’agenda dei vertici e dare dei suggerimenti: ad esempio nel caso della questione della sicurezza internazionale legata alle armi nucleari le religioni hanno lanciato l’idea di un disarmo e di un utilizzo del nucleare per scopi civili. Credo che questo sia un modo diverso di guardare alle religioni nelle prospettive delle loro potenzialità per contribuire ad una convivenza mondiale più solidale e più pacifica».

Il modello della pace perpetua di kantiana memoria è ancora immaginabile?
«Lei ha giustamente menzionato Kant che già nel 1795 notava i primi segni di globalizzazione. Kant sosteneva che già allora il mondo era diventato così connesso e così interdipendente che la violazione di un diritto in una qualunque parte del mondo era avvertita in tutte le altre aree come violazione di quel diritto. Il limite di quella costruzione è che è molto razionalista.

Oggi non bastano solo strutture internazionali o organismi multilaterali per costruire la pace; sono essenziali, ma ci vuole un elemento in più, che è quello della costruzione di un’identità collettiva di dimensione planetaria, e questo si può fare attraverso il gioco del dialogo tra le identità. Io non parlo di un dialogo tra le civiltà, che è un concetto estremamente vago, ma molto più concretamente di confronto tra le identità che si riconoscono reciprocamente. Questo è quello che è mancato nella globalizzazione che sta provocando dei guasti a livelli mondiali».

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