Guardare tutti i fiori

Uno scritto del 6 novembre 1949, in cui Chiara incomincia a riflettere sulla specificità della sua spiritualità. Introduzione di Michel Vandeleene.
Chiara Lubich

Introduzione

Michel Vandeleene

 

Abbiamo ascoltato la conversazione che Chiara aveva preparato nel 1994 sulla dimensione “collettiva” (comunitaria, trinitaria) della spiritualità dell’unità e sui suoi “strumenti”. È un testo fondamentale nella storia della sua riflessione personale sulla sua spiritualità, una conversazione che ha pure segnato una svolta in tutto il Movimento, perché ha suscitato nei suoi membri una maggiore presa di coscienza della loro specifica vocazione all’unità, a camminare nella via della vita, insieme.

 

Questo tema è stato completato negli anni seguenti da altri, nei quali Chiara ha evidenziato la dimensione collettiva dei vari punti della sua spiritualità e anche dei vari aspetti nei quali in essa la carità si dispiega (cf. Una via nuova, Roma 2002). Esso è stato scritto all’indomani di un lungo periodo di notte spirituale, da lei vissuta dall’estate 1992 all’estate 1994. Questa nuova comprensione del suo carisma ne è stata probabilmente anche un frutto.

 

Viene chiaramente in evidenza nella stessa conversazione di Chiara la novità della spiritualità dell’unità rispetto ad altre, ma mi sembra opportuno tornarvi ancora sopra per approfondirla. Questa novità può essere evidenziata in molti modi, che sono tra loro complementari e convergenti.

 

In una delle sue ultimissime conversazioni, Chiara scriveva:

 

La differenza tra un Movimento di aspetto collettivo e un Movimento più individuale dipende dal fatto che il primo inizia con gli amici, e il secondo con persone che vanno da sole a Dio. Noi partiamo non da soli, ma con altri. Si cammina insieme ad altri. Scaliamo la montagna verso l’alto con Gesù in mezzo. Siamo già in Cristo. E lui in mezzo a noi non può stare che al vertice. E si va lungo lo spartiacque. Per questo noi non saliamo lungo la strada, ma arriviamo subito al crinale della montagna… la nostra via ha uno splendore particolare: ci porta a pensare la vita sul modello della Trinità. E cosa vogliamo di più?”1.

 

Queste righe esprimono bene l’impostazione diversa che è alla base di una spiritualità collettiva: ci si fa santi insieme, si cammina in cordata, non si va avanti da soli, perché gli altri sono sempre in qualche modo coinvolti nelle cose proprie, anche nelle più intime, per via della comunione che c’è e per la quale si è o si diventa una cosa sola, un cuore solo e un’anima sola. Si vive nei rapporti interpersonali la frase del Vangelo “omnia mea tua sunt” (“Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie” – Gv 17, 10) che caratterizza il rapporto di Gesù con il Padre, l’unità. E come nella Trinità non si può pensare il Padre senza il Figlio e lo Spirito, analogamente nella vita d’unità non si può pensare a una persona senza le altre.

 

Per cui – ed è un altro modo di dire lo specifico di questa spiritualità – in essa non basta amare, bisogna ancora essere amati. Chiara l’aveva sottolineato con forza in un incontro con i focolarini, ancora nel 1994:

 

Mi sembra un pochino strana la nostra spiritualità collettiva, la quale esige che noi amiamo e pure che siamo amati. Quando mai viene detto che un eremita, o un monaco, per esempio un cistercense, abbia come ideale di essere amato? Sembra proprio una cosa strana. Invece è così. Per cui non è che sia possibile per noi, quando siamo in focolare e un focolarino è un pochino giù, dire semplicemente: ‘Eh va bene, io lo metto nel cuore di Gesù, verrà poi su. Intanto io faccio gli affari miei’. No, bisogna far di tutto, se è possibile, di tutto per fare in modo che quel focolarino si rimetta nel soprannaturale, ami e quindi che tu sia amato, perché per aver la spiritualità collettiva occorre andare e tornare. Naturalmente in questo essere amati oltre che amare sta la nostra felicità, quella felicità che Gesù ha promesso nel testamento suo, quella pienezza di gioia che viene dall’unità”2.

 

Queste parole evidenziano bene cosa sia l’amore, secondo la spiritualità dell’unità. Esso non è solo unidirezionale, amore puro, a somiglianza di quello di Gesù crocifisso e abbandonato. L’amore puro, disinteressato, è la scala per arrivare all’amore, al compimento dell’amore che è l’amore reciproco.

 

Infatti, nella spiritualità dell’unità, “amare significa esser Dio che ama Dio ed è riamato da Dio producendo lo Spirito Santo in mezzo come Terza Persona”3. Per cui l’amore vero e bello che questo stile di vita cristiano suscita è trinitario nella sua essenza. Esso tende sempre alla reciprocità; non è soddisfatto, finché non arriva al dare e al ricevere, all’unità.

 

Risulta che in questa spiritualità non si può fare a meno del fratello, non si può prescindere da Gesù in mezzo ai fratelli. La loro presenza è necessaria per camminare come si deve: “con due gambe”4 – secondo un’altra espressione di Chiara – o “tra due fuochi”5: il Risorto vivo dentro di noi e il Risorto fra noi:

 

[La Madonna] sa che da soli, in un mondo come il nostro, sarebbe difficile farcela. E per questo ha ‘inventato’ questa spiritualità che si dice collettiva appunto perché vissuta da più persone insieme. Noi tutti, del resto, siamo testimoni di questa necessità. Ricordo ancora i primi tempi [del Movimento] quando, dopo aver scoperto la realtà di Gesù in mezzo, si vedeva con evidenza il grandissimo nuovo contributo che egli portava alla nostra vita spirituale.

Prima, infatti, da soli, si avvertiva tutta la propria fragilità, la debolezza della nostra volontà inconcludente, il dubbio sulle scelte fatte per Dio; non si capiva come poter vivere il Vangelo. E così è anche oggi. Dove si è nuovamente attratti dal mondo e dalle sue proposte? Dove ci si arrende più facilmente nella lotta che quotidianamente occorre sostenere per essere cristiani…? Dove sorgono più facilmente dubbi sulla propria vocazione? È là dove vien meno la presenza di Gesù in mezzo, là dove si è soli.

Ed è logico: ‘Guai a chi è solo…’ (Qo 4, 10b), è scritto nella Scrittura, mentre: ‘Il fratello aiutato dal fratello è come una città forte’6. Il fatto è – come magnificamente spiega Giovanni Crisostomo – che ‘grande è la forza proveniente dall’esser riuniti… perché, stando riuniti insieme, cresce la carità; e, se cresce la carità, necessariamente cresce [fra noi] la realtà di Dio’7.

È Dio dunque quella forza che emana dall’unità. È Gesù in mezzo a noi. Perché possiamo raggiungere la mèta della santità con successo per noi, che percorriamo la via dell’unità, Gesù in mezzo è essenziale”8.

 

Si capisce allora la priorità data in questa spiritualità alla mutua e continua carità che, secondo gli Statuti generali dell’Opera di Maria, è la base della vita di chi la fa propria, la norma delle norme, la premessa di ogni altra regola, il modus vivendi che “rende possibile l’unità e porta la presenza di Cristo nella collettività”9.

 

Il comandamento nuovo di Gesù – quello che caratterizza il suo insegnamento ed è pure il segno distintivo dei suoi discepoli (cf. Gv 13, 35) – è infatti il nucleo fondamentale, il fulcro di questa spiritualità. Non a caso esso è anche il punto di partenza di quanto scrive Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte riguardo alla spiritualità di comunione (cf. n. 45).

In un famoso scritto del 1950, in cui narra l’esperienza fatta con le sue prime compagne durante gli anni quaranta, Chiara scrive: “Non facevamo… un passo se non eravamo tutte unite dalla mutua carità: ‘… ante omnia…’ (prima di tutto, cf. 1 Pt 4, 8). Prima d’ogni altra cosa dunque il mutuo amore”10.

 

E in una sua lettera del 1948, indirizzata a un religioso, si legge:

“… ANTE OMNIA (anche se in quest’omnia ci fossero le cose più belle, le più sacre: come la preghiera, come il celebrar la Santa Messa, ecc.) SIANO UNO! Allora non saranno più loro ad agire, a pregare, a celebrare… ma sempre Gesù in loro!”11.

 

Questo primato dato alla carità reciproca e con essa alla comunione e all’unità è un distintivo di questa spiritualità. Esso è la base sulla quale si può costruire bene, con una certa sicurezza di fare opere che rimangono, perché non più solo nostre, ma sue, di lui fra noi.

 

Per cui in questa spiritualità – ed è ancora un altro modo di dire sempre la stessa cosa – l’unità è messa a base, a fine e come mezzo di ogni attività:

L’Unità fu la base d’ogni nostra azione (ci amavamo sinceramente prima d’agire in qualsiasi modo e per qualsiasi fine… e qui era il Vangelo che vuole la riconciliazione col fratello anche prima dell’offerta all’altare!);

– fu il mezzo per amare il prossimo, ci si faceva uno con tutti; si piangeva con chi piange; si rideva con chi ride in modo da amare il prossimo proprio come noi stessi e a base di tutto era la mutua carità: prima delle discussioni, degli interessi ecc.;

– fu il fine perché era stato il fine della vita di Gesù morto per ricondurre i fratelli all’unico ovile, di Gesù che volevamo tutti ricopiare qualsiasi fosse la nostra vocazione perché Egli è Luce per tutti”12.

 

Quando mai, nella Chiesa, si antepone agli incontri pastorali, alla catechesi, alle opere di apostolato, caritative, educative, culturali… la comunione fraterna e il mutuo amore? Eppure sarebbe la salvezza, perché mettendo l’unità a base di tutto, si metterebbe Dio a base di tutto e si sarebbe in tutto da Lui guidati. Noi stessi, come membri di un Movimento che ha l’unità come sua specifica vocazione, costatiamo quotidianamente il grande beneficio di un tale modo di comportarsi e sperimentiamo pure la grandissima difficoltà, l’ascesi eroica che questa vita di unità richiede.

 

Conviene attirare l’attenzione sull’unità come fine, perché in questa finalità vi è il testamento di Gesù: “ut omnes unum sint” (cf. Gv 17, 21), che è la finalità stessa della Chiesa, alla quale l’Opera di Maria vuole contribuire con il carisma che ha ricevuto da Dio. Per cui si capisce che lo spirito di quest’Opera, che è di comunione, entri in tutti gli ambienti, sposi tutte le vocazioni, abbracci tutti i dialoghi che la Chiesa postconciliare ha aperto. E pure questo distingue questa spiritualità rispetto ad altre: essa è infatti eminentemente mariana, universale.

 

Facciamo ora un ulteriore passo avanti leggendo uno dei primi scritti nei quali Chiara evidenzia la novità della sua spiritualità rispetto ad altre. Oltre a quanto risultava già dalla conversazione del 1994, in esso appare chiaramente anche l’importanza della sua comprensione del grido d’abbandono di Gesù, quale chiave della vita di unità.

 

Guardare tutti i fiori

 

I fedeli, che tendono alla perfezione, cercano, in genere, di unirsi a Dio presente nel loro cuore.

 

Essi stanno come in un grande giardino fiorito e guardano ed ammirano un solo fiore. Lo guardano con amore nei particolari e nell’insieme, ma non osservano tanto gli altri fiori.

 

Dio – per la spiritualità collettiva che Egli ci ha donato – chiede a noi di guardare tutti i fiori perché in tutti è Lui e così, osservandoli tutti, si ama più Lui che i singoli fiori.

 

Dio che è in me, che ha plasmato la mia anima, che vi riposa in Trinità, è anche nel cuore dei fratelli.

 

Non basta quindi che io Lo ami solo in me. Se così faccio il mio amore ha ancora qualcosa di personale e, per la spiritualità che sono chiamata a vivere, di tendenzialmente egoistico: amo Dio in me e non Dio in Dio, mentre questa è la perfezione: Dio in Dio.

 

Dunque la mia cella, come dicono le anime intime a Dio, e, come noi diciamo, il mio Cielo, è in me e come in me nell’anima dei fratelli. E come Lo amo in me, raccogliendomi in esso – quando sono sola –, Lo amo nel fratello quando egli è presso di me.

 

Allora non amo solo il silenzio, ma anche la parola, la comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel fratello. E se i due Cieli si incontrano ivi è un’unica Trinità, ove i due stanno come Padre e Figlio e tra essi è lo Spirito Santo.

 

Occorre sì sempre raccogliersi anche in presenza del fratello, ma non sfuggendo la creatura, bensì raccogliendola nel proprio Cielo e raccogliendo sé nel suo Cielo.

 

E, giacché questa Trinità è in corpi umani, ivi è Gesù: l’Uomo-Dio.

 

E fra i due è l’unità ove si è uno, ma non si è soli. E qui è il miracolo della Trinità e la bellezza di Dio che non è solo perché è Amore.

 

Allora l’anima, quando tutto il giorno volentieri ha perso il Dio in sé per trasferirsi nel Dio nel fratello (ché l’uno è uguale all’altro, come due fiori di quel giardino sono opera dell’identico fattore) ed avrà fatto ciò per amore di Gesù crocefisso e abbandonato che lascia Dio per Dio (e proprio Dio in sé per il Dio presente o nascituro nel fratello…), ritornata su se stessa o meglio sul Dio in sé (perché sola nella preghiera o nella meditazione), ritroverà la carezza dello Spirito che – perché Amore – è Amore per davvero, dato che Dio non può venir meno alla sua parola e dà a chi ha dato: dà amore a chi ha amato.

 

Così scompare la tenebra e l’infelicità con l’aridità e tutte le cose amare, rimanendo solo il gaudio pieno promesso a chi avrà vissuto l’Unità.

 

Il ciclo è completo.

 

Noi dobbiamo dar vita continuamente a queste cellule vive del Mistico Corpo di Cristo – che sono i fratelli uniti nel suo nome – per ravvivare l’intero Corpo.

 

Il guardare tutti i fiori è avere la visione di Gesù, di Gesù che, oltre ad essere il Capo del Mistico Corpo, è tutto: tutta la Luce, la Parola, mentre noi ne siamo parole. Però se ognuno di noi si perde nel fratello e fa cellula con esso (cellula del Corpo Mistico), diviene Cristo totale, Parola, Verbo. È per questo che Gesù dice: ‘… e la Luce che Tu hai dato a me l’ho data ad essi’ (Gv 17,22).

 

Ma occorre saper perdere il Dio in sé per Dio nei fratelli. E questo lo fa chi conosce ed ama Gesù crocifisso e abbandonato.

 

 

NOTE

 

1 C. Lubich, Gesù abbandonato e le quattro notti: dei sensi, dello spirito, di Dio e quella collettiva e culturale (Mollens, 25 settembre 2006).

 

2 Id, Intervento all’incontro dei focolarini (Castel Gandolfo, 25.12.94).

 

3 Id., Scritto (8.11.50). “Esser Dio” nel senso di essere, sul nulla di noi, del tutto mosso da Dio, dallo Spirito Santo, in modo da essere partecipi dell’essere Amore che è Dio. “che ama Dio” perché si ama Dio, Cristo nel prossimo e, perché ci sia l’amore, si dovrebbe essere così dall’altro riamato di modo che fra noi e lui ci sia lo Spirito Santo.

 

4 Id., Risposte alle domande, (agli abitanti di Loppiano, 12.5.87)

 

5 Id., La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 2006, pp. 94-95.

 

6 Pr 18, 19. Cf. G. Crisostomo, Expos. In Psal. 133, PG 55, 385.

 

7 Id., In Epist. Ad Hebr. 10, 25, Hom. 19, 1 PG 63, 140.

 

8 C. Lubich, Collegamento CH (14.5.87), in Cercando le cose di lassù, cit., pp. 36-39.

 

9 Id., La premessa di ogni altra regola, in Statuti Generale dell’Opera di Maria.

 

10 C. Lubich – I. Giordani, Erano i tempi di guerra…, cit., p. 16.

 

11 Id., Lettera a padre Bonaventura (Trento, 27.12.1948).

 

12 Id., Un po’ di storia del ‘movimento dell’unità’ (31.12.49), di prossima pubblicazione in Nuova Umanità 1 (2009).

 

 

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