Guardando oltre il risultato

Nessuna medaglia per l’Italia alle Paralimpiadi invernali. I nostri atleti, però, ci insegnano che nello sport non conta solo vincere
Melania Corradini

Le Paralimpiadi di Sochi, terminate domenica sera con una spettacolare cerimonia di chiusura, chiudono i battenti con un bilancio superiore a ogni più rosea attesa. Il precedente record di biglietti venduti per assistere alle gare, ad esempio, è stato rapidamente polverizzato, e anche la copertura televisiva riservata a questi Giochi (ben 76 nazioni hanno trasmesso l’evento in diretta), non ha precedenti. Eh già, questa manifestazione negli ultimi anni ha fatto grandissimi passi avanti. Con il tempo, il clima di “solidarietà” che poco ha a che vedere con il vero senso dello sport, ha lasciato spazio a un sempre più elevato livello tecnico delle competizioni. Come si è potuto osservare benissimo in questi ultimi giorni a Sochi, dove gli atleti russi l’hanno fatta da padroni (30 le medaglie d’oro conquistate nelle 72 gare disputate), ma dove sono stati molto bravi anche tedeschi, canadesi, ucraini e statunitensi, rappresentanti di nazioni dove molto si è investito e si continua a investire nello sport per disabili.

Purtroppo, per l’Italia questi giochi non sono stati molto fortunati. Per la prima volta in una Paralimpiade invernale, infatti, torniamo a casa senza medaglie. Un risultato indubbiamente deludente, determinato anche dal fatto che alcuni dei nostri atleti più accreditati hanno dovuto pagare un elevato dazio alla buona sorte. Prendete ad esempio Melania Corradini, ventiseienne sciatrice trentina, che in Russia non ha potuto esprimersi al meglio poiché fortemente condizionata dai postumi di un infortunio patito a gennaio (frattura scomposta della clavicola). Alessandro Daldoss, invece, alla sua prima esperienza paralimpica è caduto a pochi metri dal traguardo nella prova di supergigante quando una medaglia (probabilmente anche d’oro) sembrava ormai cosa fatta. E anche Francesca Porcellato, una veterana delle Paralimpiadi (con quella di Sochi, tra edizioni estive e invernali, l’azzurra è arrivata alla nona partecipazione complessiva), nella sua gara preferita ha trovato le condizioni atmosferiche meno confacenti alle proprie caratteristiche.

«Peccato, negli ultimi anni non sono mai scesa dal podio in questa specialità (il chilometro sprint dello sci di fondo, ndr): qui a Sochi ho trovato la neve peggiore che potesse capitarmi. Ma del resto questo è lo sport: una volta va bene, una volta no. Nella mia vita ho avuto tante occasioni, ce ne saranno delle altre, vuol dire che la prossima volta sarà ancora più bella», ha commentato a fine gara Francesca con una sportività davvero invidiabile. Una sportività che viene quasi naturale alla maggior parte di questi atleti per cui lo sport è essenzialmente una sfida agonistica, certamente, ma è pure altro. Ragazzi e ragazze che hanno saputo, anche attraverso lo sport, andare aldilà dei propri limiti fisici. Ragazzi e ragazze di cui in questi ultimi giorni abbiamo potuto conoscere un po’ di più, di cui abbiamo potuto scoprire le vicende umane particolarmente toccanti che li hanno visti protagonisti. Atleti come Andrea Macrì, o come Giordano Tomasoni.    

Andrea è un ventiduenne torinese che studia Scienze della comunicazione. Atleta polivalente (pratica anche scherma, sport in cui ha gareggiato alle Paralimpiadi di Londra del 2012), Macrì il 22 novembre del 2008 si trovava a scuola (il Liceo Darwin di Rivoli, in provincia di Torino), quando improvvisamente un cedimento del soffitto provocò anche il crollo di un tubo di ghisa proprio sul banco dove sedeva insieme al suo amico Vito Scafidi. Vito perse la vita sotto i calcinacci, mentre Andrea rimase paraplegico. «Ovunque la mia vita mi porterà, sarà sempre legata a lui. Il mio percorso sportivo è iniziato proprio lì dove è finito il suo percorso di vita. Non voglio però ricordarlo con le lacrime, perché Vito si merita sorrisi e anche qualche bel goal», ha confidato Andrea ai cronisti che lo hanno intervistato a Sochi dopo aver realizzato un goal, con dedica speciale, nella sfida vinta dagli azzurri nello sledge hockey contro la Corea del Sud.

Giordano, invece, è un quarantatreenne bergamasco. Anche lui, come Andrea, a Sochi non ha vinto medaglie, anzi è arrivato ventunesimo (ultimo) nella 15 chilometri di sci di fondo riservata ad atleti che gareggiano seduti. Non ha vinto, ma ha ugualmente provato un’emozione fortissima. Tomasoni è finito in carrozzina a causa delle conseguenze di una malattia terribile: la depressione. Un giorno, all’apice della disperazione, scavalcò la barriera di un ponte e si gettò nel vuoto. Voleva farla finita. «La mia storia – come lui stesso racconta adesso – potrebbe essere quella di una qualsiasi altra persona che si è trovata in un momento di grande debolezza, e non è riuscita a superare da sola la malattia». Nella caduta però Giordano non muore, rimane paraplegico, e oggi anche grazie allo sport si è ripreso la sua vita. «Ci sono stati giorni nel mio passato in cui le lacrime erano amare, ma oggi, anche se sono arrivato ultimo, anche se il distacco dai primi è stato enorme, la gioia è veramente infinita e spero che questa emozione mi accompagni ancora per molto».

In queste Paralimpiadi l’Italia non ha vinto alcuna medaglia, ma ha potuto scoprire degli sportivi davvero speciali. Ragazzi e ragazze che ci aiutano anche a dare il giusto peso a un risultato sportivo deludente, come accaduto questa volta agli azzurri. Per ricominciare, per provare a vincere, c’è spesso un’altra occasione!

Foto di Melania Corradini dal sito www.comitatoparalimpico.it

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