Grecia: “muri della gentilezza” nel campo profughi

Il messaggio del “muro della genilezza” (wall of kindness) è lasciare con rispetto qualcosa dentro una scatola o una busta, o appeso a un muro: qualcosa per qualcuno che ne ha bisogno. Sono nati 2 di questi muri della gentilezza anche in un campo profughi greco.

Due “muri della gentilezza” sono stati creati da alcune donne che vivono nel campo profughi di Schistos, a nord-ovest di Atene, per trasmettere agli altri profughi del campo un messaggio di solidarietà.

A Schistos, il 10 luglio scorso, Hamid, un ragazzo afghano di 22 anni, si è suicidato impiccandosi nel container in cui alloggiava dopo il terzo rifiuto della sua richiesta di asilo, e nel timore di essere riconsegnato alle autorità turche. Hamid non è il solo che ha scelto il suicidio e Schistos è solo uno dei 34 campi profughi presenti in Grecia.

Il muro della gentilezza è un’iniziativa di un anonimo cittadino iraniano che nel 2015 ha così voluto sostenere i senza tetto della sua città, Mashad, in Iran. Molto presto l’iniziativa si è diffusa in tutto il paese, e negli ultimi anni è diventata una pratica sempre più diffusa anche in India, Cina, Svezia, Italia e Grecia.

Alcune donne afghane profughe in Iran, che oggi vivono nel campo di Schistos, conoscevano i muri della gentilezza e d’accordo con la responsabile per l’istruzione dei profughi hanno deciso di mettere in atto l’iniziativa. Come dice la direttrice della formazione, la signora Karagianni, i profughi del campo vivono isolati, spesso senza scopi e senza motivazioni, e rischiano di pensare solo ai propri bisogni. La pratica dei muri della gentilezza li aiuta a pensare anche ai bisogni degli altri. Ad aprirsi.

Muro della gentilezza in Grecia

Muri che rinchiudono, nei campi profughi, non ne mancano di certo. Sul primo muro le donne hanno dipinto un giardino pieno di fiori e hanno scritto “We can do it” (possiamo farlo). Hanno deciso che sarà questo il nome del loro gruppo. In seguito hanno invitato i residenti del campo a lasciare appesi al muro o accanto ad esso, vestiti, scarpe e altri oggetti di cui non avevano necessità perchè li trovassero altri che ne avevano bisogno. Poi hanno individuato un altro muro, che intendono decorare quanto prima. Nei loro piani ci sono altri due muri che vorrebbero attivare. Il fatto è che l’ iniziativa funziona e gli abitanti del campo ne sono contenti.

Un altro aspetto che questa iniziativa ha fatto conoscere sono le lezioni che si fanno alle donne del campo su temi relativi ai valori europei e ai diritti delle donne. Il programma si chiama “Teachers4Europe” ed è finanziato dall’Ue. È importante che i profughi conoscano la cultura nella quale vorrebbero vivere.

Hanno dato vita a queste lezioni più di 1.200 insegnanti, e tra loro anche la direttrice Karagianni, la responsabile del campo di Schistos, che ha coinvolto come volontari numerosi studenti dell’Università del Pireo. Tra i profughi del campo sono soprattutto le donne che hanno aderito, alla ricerca di esempi che le incoraggino a sperare ed a sentirsi creative, a prendere iniziative.

Come dice la signora Karagianni, queste donne non conoscono niente della cultura europea, perciò le lezioni comprendono la storia, la situazione economica, la cultura dei paesi europei e naturalmente le conquiste delle donne e i diritti umani. «È molto importante che le donne profughe – afferma la signora Karagianni – capiscano dove sono venute a vivere e scoprano come superare il vittimismo di cui sono investite. È vero che hanno vissuto esperienze traumatiche, però ad un certo punto vanno aiutate a vedere loro stesse come cittadine europee, perchè sono già cittadine europee che godono di diritti, libertà, privilegi e aiuto. Dobbiamo aiutarle a scoprire un’identità nuova: non la vittima o la persona traumatizzata, neppure la profuga, ma la cittadina europea».

Il successo di questa iniziativa dipende però anche dalla creazione di un gruppo per gli uomini del campo. Un gruppo che si costituirà a settembre. Ma se è vero che i profughi sono già cittadini europei, bisogna tenere conto che esiste anche una realtà disumana, cioè l’uso di queste persone come strumenti di pressione geopolitica. Nella speranza e nell’impegno che ad un certo punto il muro fisico che li rinchiude crolli.

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