Gomorra, un’altra occasione mancata

Puntata dopo puntata, seguendo le vicende di don Pietro, Ciro e Genny, in molti è cresciuta l'indignazione, per una storia che ha tagliato via ogni forma di speranza, scegliendo la via più semplice per attirare l'audience
Marco D'Amore interpreta Ciro Di Marzio in Gomorra

Ho appena finito di guardare la nuova serie tv “Gomorra: con un crescente imbarazzo che, puntata dopo puntata, s’è trasformato in nausea, e poi in indignazione. Non tanto per quest’ennesima “rappresentazione del Male” – come la definiscono Saviano e gli autori – quanto per la parzialità di un racconto che ha deliberatamente tagliato fuori qualunque forma d’opposizione a un ecosistema perverso: non un magistrato coraggioso, nessun accenno ai tanti preti di frontiera che contro la camorra combattono quotidianamente, né ai giornalisti, poliziotti, carabinieri, commercianti, insegnanti, gente comune che a tali depravazioni s’oppongono rischiando la vita ogni giorno; le rarissime scene dove tali categorie comparivano erano parte delle collusioni o belle statuine messe lì per far folklore.

 

Non è così che s’aiuta quel disgraziato tessuto sociale a emanciparsi dalle sue endemiche piaghe, non sono queste le transenne da opporre alla violenza e al malaffare, e mi chiedo come sia possibile che uno scrittore che vive sotto scorta non si renda conto dell’appeal che tali “messe in scena” possiedano per tanti ragazzini che la vera Gomorra ce l’hanno sotto casa e la vivono senza uno straccio d’alternativa: tanto più se gliele si nasconde.

 

Qualche giorno fa mi sono trovato in quelle stesse periferie partenopee esposte in questa fiera del degrado come fossero lo sfondo di un western all’acquapazza, e ho visto anche realtà meravigliose, vitali e commoventi, regolarmente snobbate dai media e del tutto ignorate dagli sceneggiatori della succitata serie (così come da quelli dei suoi epigoni e derivati). Fregandosene dei danni d’immagine che tali imprese arrecano a Napoli e all’Italia, Sky gongola degli ascolti record dopo aver piazzato il prodotto in più di 130 nazioni; e va gloriandosene come avesse vinto un Nobel.

 

In realtà ha semplicemente sfruttato senza alcuna remora deontologica la più banale delle regole drammaturgiche: ovvero che raccontare le aberrazioni è infinitamente più semplice e conveniente che incoraggiarne gli opposti; però ignorando che se queste non hanno contrappesi e antagonismi adeguati (etici e morali in questo caso), anche la narrazione finisce con l’avvitarsi: in questo caso, in una raccapricciante litania di sanguinacci, o se preferisci, in un’insulsa Dynasty camorristica preoccupata soltanto di potersi riprodurre in futuro. Per come la vedo, siamo a un’ennesima reincarnazione della pornografia, oltretutto spacciata per denuncia sociale. Capisco tutto, tranne come si possa andarne orgogliosi.

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