Gli schiavi del Sinai e la nostra coscienza

Una fiaccolata a Roma il primo febbraio per chiedere la loro liberazione. Dubbi sulla politica di contrasto all’immigrazione clandestina
eritrei sequestrati nel sinai

«Se è necessario iniziare una guerra per un pozzo di petrolio ci si mobilita, ma un gruppo di eritrei ridotti in schiavitù non interessa a nessuno!» Così, senza mezze parole, il gesuita padre La Manna intervistato dalla radio vaticana riferendosi ai 250 profughi che, fuggiti dal disastrato Paese africano, sono, da oltre due mesi, in balia dei predoni nel deserto del Sinai, nel confine tra Egitto e Israele.

 

Ci vuole un forte impegno internazionale per avviare un piano di evacuazione umanitaria in grado di garantirne l’accoglienza sul territorio dell’Unione europea, che è la meta di questi uomini e donne, ora esposti ad ogni tipo di violenza dai loro sequestratori, che sono pronti a cederli ad altre organizzazioni criminali per ogni tipo di sfruttamento.

 

La gran parte dei migranti irregolari arrivano in prima battuta nei Paesi mediterranei, via terra o su voli di linea. Con permessi temporanei. Altri tentano la via del mare, ma bisogna riconoscere che le misure adottate dall’Italia sono state efficaci nel bloccare il flusso di migranti dalle coste della Libia e della Tunisia.

 

Come le aziende delocalizzano la produzione all’estero, anche il controllo di sicurezza dei migranti avviene in parte sul territorio nordafricano. La materia rientra nel quadro complessivo del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione concluso nell’agosto 2008 tra Italia e Libia.  

 

Un voto inaspettato alla Camera dei deputati del 9 novembre 2010 aveva indicato la necessità di mettere uno stop ai respingimenti dei migranti in attesa della ratifica da parte della Libia della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e delle rassicurazioni sull’agibilità effettiva dell’agenzia Onu per i rifugiati UNHCR nel Paese governato dal colonnello Gheddafi. Ma i commentatori politici più realisti avevano subito previsto che non sarebbe stata certo una questione umanitaria a disegnare una nuova maggioranza di governo.

 

Secondo le testimonianze delle organizzazioni non governative, una parte dei 250 reclusi nel Sinai, a cui si starebbero per aggiungere altri migranti in fuga dal Paese d’origine, rientrano nel numero di quelli respinti in Libia dall’Italia.

 

Fin dall’inizio il trattato italo libico è stato oggetto di dure e circostanziate critiche da parte di voci del mondo ecclesiale. A partire dal vescovo Agostino Marchetto, allora segretario del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti, che si è appellato al «principio di non respingimento» quale cardine del diritto internazionale in materia di protezione delle persone perseguitate. Sulla gravità del respingimento, «operato anche nei confronti di nazioni dove persistono condizioni di insicurezza e violazione dei diritti umani come Eritrea e Etiopia», Marchetto riportava le dichiarazioni del rappresentante dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati a proposito «della mancata reale possibilità di avanzare domanda di asilo» da parte dei migranti respinti senza essere identificati sulle navi italiane.

 

Affermazioni molto nette da parte di monsignor Marchetto che, pur provenendo da trentanni di carriera diplomatica, di fronte ad inviti alla prudenza sulla presa di posizione da parte della chiesa per evitare polemiche, risponde in un recente libro intervista con un’altra domanda: Secondo lei dovevo star zitto?

 

Così, a testimoniare l’importanza della libertà di stampa da parte di soggetti come la rete planetaria dei missionari cattolici si può ritrovare l’inchiesta che il mensile dei gesuiti, Popoli, dedicava nel dicembre 2009 all’intesa siglata tra Italia e Libia sottolineando come l’aspetto del controllo dei migranti verso l’Italia, da fermare sul territorio libico e rimandare nei Paesi di partenza, si inseriva in un grande accordo avente al centro il commercio e la fornitura di armamenti, grazie anche agli investimenti in società comuni, adeguatamente finanziati dai “fondi sovrani” libici e orientati alle forniture del mercato africano e medio orientale. A cominciare dal muro elettronico antimigranti da collocare nei confini a Sud della Libia affidato al gruppo industriale Finmeccanica in cui il fondo Lybian Investment Authority è già arrivato, come riportano le fonti della Borsa, a possedere il 2 per cento del capitale giocando un ruolo non marginale nella nomina del prossimo consiglio di amministrazione.

 

Nulla di nuovo a proposito di armi, frontiere e muri se si pensa alla recente decisione del presidente Usa Obama di risparmiare sull’impiego degli uomini della guardia nazionale sul confine con il Messico impiegando, per compiti di ricognizione, aerei militari senza pilota. I famosi “droni” utilizzati per bombardamenti su altri campi di battaglia.  

 

Con questa consapevolezza, dunque, si può considerare il senso della fiaccolata promossa per il primo febbraio a Roma in piazza del Campidoglio per chiedere un soprassalto di dignità alla comunità internazionale, nonché l’impegno diretto di Egitto e Israele ad intervenire per liberare i migranti eritrei dalle mani dei loro aguzzini.

 

L’iniziativa è partita, tra gli altri dal Centro italiano per i rifugiati e dal centro Astalli del jesuit refugee service. L’immagine del deserto del Sinai non può non far affiorare alla memoria collettiva l’esodo di liberazione dalla schiavitù e il suo ammonimento non negoziabile: «non molesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto». 

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