Gli oppressi e il pensiero economico dominante

Thaler, Bruni, Mazzucato, Magatti, Bauman. Una lettura delle sfide del nostro tempo alle prese con la crisi dell’ordine neoliberista e la necessità di uno sguardo profetico sul mondo. Il segnale colto dalle Settimane sociali dei cattolici italiani
Stephanie Strasburg/Pittsburgh Post-Gazette via AP

Il Premio Nobel per l’economia 2017 è stato assegnato a Richard Thaler, inventore di “nudge”, la “spinta gentile”. Si tratta di una nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità. Siamo esseri umani, non calcolatori perfettamente razionali come l’homo oeconomicus. Siamo condizionati da molte informazioni contrastanti, dalla nostra irrazionalità e dalla pigrizia mentale. Per questo abbiamo bisogno di un “pungolo”, di una “spinta gentile” che ci indirizzi verso la scelta giusta.

Thaler definisce “paternalismo libertario” il suo approccio. Egli richiama esplicitamente Milton Friedman, uno dei padri del neoliberismo rampante di questi decenni e quindi non mette in discussione il pensiero economico dominante. Certamente questa teoria migliora l’architettura delle scelte in azione, sia nel campo privato sia nella pubblica amministrazione. Egli definisce la sua una nuova via, né di destra né di sinistra, che può consentire ai governi di tutelare la libertà dei cittadini, incoraggiandoli a prendere decisioni più sagge. Tuttavia non mette in discussione il pensiero mainstream dominante nelle Università e nelle politiche economiche. La sua opera, infatti, era uscita nel 2008, all’inizio della Grande recessione che ha messo in crisi profonda la dottrina neoliberista.

L’antropologia pessimistica

Su un piano completamente diverso si pongono oggi altri economisti. Luigino Bruni, innanzitutto, in una intervista di luglio su Città Nuova, afferma che «Non si può pensare che la scienza economica sia sufficiente da sola per capire il mondo». Occorre un approccio interdisciplinare che coinvolga anche storia, etica, filosofia, politica per superare l’antropologia pessimistica del capitalismo anglosassone, che ci imprigiona nel nostro interesse personale e ci allontana da virtù, gratuità, dono, uomo sociale, bene comune e felicità pubblica. Dobbiamo avere, invece, uno sguardo profetico sul mondo che ci consenta di vedere cose che gli altri non vedono, sempre dalla prospettiva dei poveri e degli oppressi. Il profeta, infatti, svuota il mondo da idoli e ideologie. La crisi del 2008 e la lunga recessione quasi decennale ci spingono fortemente ad avere questo sguardo critico, ben oltre il “paternalismo libertario”, a ripensare il capitalismo, a cambiare paradigma.

Un sistema in agonia

Mariana Mazzucato in Ripensare il capitalismo, Laterza, Roma-Bari 2017, sostiene che senza cambiamenti radicali del nostro modo di interpretare il capitalismo e di pensare politiche pubbliche, non sarà possibile un sistema economico sostenibile ed inclusivo. Solo politiche economiche, radicalmente innovative, potranno consentirci di affrontare problemi gravi ed interconnessi: disuguaglianze estreme, città inquinate, crescita lenta ed emarginazione di milioni di persone, un disastroso cambiamento climatico. Dobbiamo capire la natura della crisi del sistema capitalista contemporaneo, l’agonia del paradigma vincente del neoliberismo. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare il mercato finanziario, la politica fiscale e monetaria, le disuguaglianze, le privatizzazioni, le innovazioni ed il cambiamento climatico.

Dobbiamo aver il coraggio di superare luoghi comuni, preconcetti e di sfidare i mostri sacri del pensiero economico dominante, di sottolineare le contraddizioni e le mitologie dell’attuale ortodossia economica. Essa è diventata la grammatica della politica e ne condiziona il linguaggio. Il capitalismo rischia così di trasformarsi in una religione, come nota acutamente Luigino Bruni, in un insieme di false credenze e di mitologie. Viene messo in scena un universo angoscioso fatto di vincoli di bilancio, di austerity, di rifiuti, punizioni e frustrazioni. Grecia docet.  Si toglie così ossigeno a progetti, innovazioni e ambizioni con gli orizzonti ristretti del “quanto costa”, “quanto rende”. Si mette in crisi la democrazia subordinando la politica alla finanza. Il neoliberismo in fase terminale, la social-xenofobia emergente, l’ecoscetticismo irriducibile non rappresentano una spinta al cambiamento ed alla riforma del sistema ma ci imprigionano nel mondo così com’è, mettendo a tacere il pensiero critico.

Cambio di paradigma

Come uscire allora dalla crisi iniziata nel 2008 pensando il futuro? Attraverso uno sguardo nuovo per comprendere la realtà. La crisi del 2008 non è solo economico-finanziaria, è anche politica e culturale. Segna un cambio d’epoca essendosi esaurite le spinte propulsive della crescita economica e del benessere. Il mercato globale senza regole produce disuguaglianza, conflitti, crisi della politica con tendenze populiste e nazionaliste. È la prima vera crisi politica della globalizzazione con tendenza a rinchiudersi nelle “piccole patrie”, come Brexit e Catalogna insegnano. È il momento di introdurre, afferma Mauro Magatti in Cambio di paradigma, Feltrinelli, Milano 2017, un modello di scambio sostenibile. Come uscire allora dalla Grande recessione-regressione? Occorre una nuova narrazione, capace di leggere il presente e di proiettarci verso il futuro. «I problemi che oggi abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche, scorciatoie e cure istantanee, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. Servirà un’autentica visione globale a lungo termine e tanta pazienza». Ha affermato Zigmunt Bauman in La grande regressione. Quindici intellettuali di tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017.

Dopo il 1989 nessuna “fine della Storia”, nessuna affermazione globale della democrazia liberale ma piuttosto una “Grande regressione” economica, politica, sociale e culturale. Lavoro, stabilità, ricchezza si assottigliano nelle società occidentali mentre si diffonde la retorica della sicurezza alimentata dalla paura. Si rafforza il sovranismo nazionale a danno di una maggiore cooperazione transnazionale. Cresce la xenofobia per l’epocale flusso di migranti. Si affermano nelle elezioni partiti nazionalisti. Negli Usa vince la demagogia alla Trump tra operai e ceti medi impoveriti: i “dimenticati” dalla globalizzazione. Si notano tendenze autoritarie ispirate dall’odio verso le minoranze. Il discorso pubblico subisce una brutalizzazione. In questo fosco contesto, sembrano esauriti gli strumenti per affrontare la crisi. E’ necessario analizzare le radici di questa regressione nel suo contesto storico e tracciare gli scenari possibili. Anche Magatti conferma di cambiare paradigma. Dopo lo scambio fordista-welfarista (1945-1993), sostituito dallo scambio finanziario consumerista (1979-2008) registriamo cinque tipi di disordine mondiale: sociale, demografico, politico, economico-finanziario, ambientale. È in crisi evidente l’ordine neoliberista. Occorre rilegare economia e società, crescita economica e sviluppo umano e sociale.

La centralità della persona

È l’ora dello scambio sostenibile-contributivo. Solo imprese, territori, nazioni capaci di produrre valore economico, ambientale, sociale, cognitivo, istituzionale si troveranno nella condizione di poter sostenere i loro consumi. Questi saranno garantiti dalla partecipazione diffusa alla produzione di valore condiviso. In tal modo avranno qualità, integrazione sociale e sistemica, contribuzione e valorizzazione delle capacità personali. Possiamo intravvedere una economia del valore plurale e contestuale, fondata su principi di efficienza, esistenza, eccedenza, comune interesse, fioritura dei territori, investimenti pubblici di tipo infrastrutturale.

Sarà un’epoca di “generatività” nel solco della lunga tradizione dell’economia civile, con una politica leggera e autorevole, capace di tratteggiare il futuro, di suscitare e mobilitare risorse nascoste in un circuito virtuoso sostenibile ambientalmente. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, nella recente Settimana sociale di Cagliari ha sostenuto: «Deve cambiare il paradigma dello sviluppo globale che porti al centro il rispetto della dignità della persona umana, della cura della casa comune e della costruzione della pace. Tenendo presente che non tutti i lavori si equivalgono come nel caso della produzione e vendita delle armi, che riguarda anche situazioni qui presenti in Sardegna».

 

 

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